I l “ciao” accompagnato da un timido sorriso strappa le lacrime perché quando è arrivato sapevamo che Elena Altamira non c’era più: il video con il quale ha voluto testimoniare della sua scelta è stato diffuso dopo, ed è forse per questo che abbiamo ascoltato le sue parole con un’attenzione particolare.

Un anno fa le era stato diagnosticato un cancro ai polmoni e, a parte una cura a base di cortisone, non si poteva fare nulla, solo aspettare che le cose peggiorassero. Suo malgrado si era così trovata a mettere in pratica un pensiero convinto, un’idea nata prima che tutto questo accadesse. Per usare le sue parole: terminare la vita prima che lo facesse in maniera dolorosa la malattia. Tra la strada più lunga che portava all’inferno e quella più breve che andava a Basilea ha scelto la seconda: suicidio assistito. Ma prima ha voluto proteggere i suoi familiari che, pur volendo procrastinare il momento del distacco, l’hanno capita e appoggiata: per evitare che finissero nei guai giudiziari si è rivolta a Marco Cappato, dell’associazione Luca Coscioni. Il che si è tradotto nella solitudine della fine in un luogo sconosciuto invece del suo letto con le mani in quelle del marito e della figlia.

I l Parlamento fa melina, eufemismo per dire che insiste nel non decidere,intanto gli italiani utilizzano gli strumenti che hanno mentre Cappato mette a disposizione la sua fedina penale per tenere alta l’attenzione. Della politica, non certo dell’opinione pubblica, che sul tema è particolarmente avvertita. Del resto, la vita si allunga, la scienza aiuta a superare difficoltà anche gravi ma non sempre si arriva alla guarigione o a una migliore condizione. Spesso si dilunga solo l’attesa dell’inevitabile, tra mille sofferenze. Ecco perché molte persone vorrebbero porre fine a un dolore destinato a crescere.

Elena Altamira con le sue gambe è andata in Svizzera e ha messo in pratica la sua decisione, da sola, dopo aver spiegato in un video le sue motivazioni, fino a quello straziante saluto. Ma ci sono pazienti nell’impossibilità fisica di fare la stessa cosa nonostante condividano quella scelta, e devono ricorrere ai tribunali attraverso chi sta loro vicino. Per non dire di chi non è più presente a se stesso ma aveva espresso la sua volontà prima.

Il referendum sul fine vita è stato bocciato per una questione legata alla formulazione del quesito ma per due volte la Corte costituzionale ha invitato il Parlamento a legiferare. Camera e Senato però ancora non hanno licenziato una legge, dimostrandosi indietro rispetto ai cittadini che, senza aspettare, procedono per la loro strada.

La materia è decisamente divisiva: chi ritiene immorale e ingiusto decidere sulla fine si batte perché nulla cambi anche se, di fatto, tutto è già cambiato con le sentenze che fanno giurisprudenza e i principi ribaditi dalla Consulta. Nel caso del viaggio in Svizzera per il suicidio assistito, invece no, tanto è vero che i processi per "aiuto” vengono istruiti, anche se condanne non ne vedono, il che è senza dubbio significativo.

I tempi sono maturi, e non da oggi, per una normativa che vada nel senso di una scelta consapevole dei singoli.

Quando poi leggiamo di Archie, il ragazzino inglese in coma irreversibile per mesi dopo un tremendo gioco per adolescenti su TikTok, si spalanca davanti a noi lo scenario opposto: i genitori si sono battuti in tutti i tribunali – Alta corte, Corte d’appello, Corte superiore, Onu, Corte europea dei diritti dell’uomo - e il verdetto è stato sempre lo stesso. «Staccate la spina». Non c’era attività cerebrale, nessuna possibilità di ripresa, tenerlo attaccato alle macchina sarebbe stata una proroga inutile e poco dignitosa. La decisione l’hanno presa i medici. Padre e madre del ragazzino non erano d’accordo e si sono rivolti ai giudici che hanno confermato l’ok al distacco dei supporti vitali. I genitori lamentavano l’impossibilità di decidere sulla fine del figlio: altro tema, delicatissimo, che scuote la coscienza di ognuno di noi, perché sono in gioco l’amore, il dolore, la speranza, la giustizia.

Nel caso di Archie qualcuno ha pensato che alla base della scelta ci fossero i costi sanitari per tenere in vita meccanicamente il paziente, ma tutto lascia credere che non sia stato quello a convincere giudici così diversi, uniti nel confermare la decisione dei medici che avevano in cura il ragazzino e certo non stavano pensando alle ventimila sterline che il sistema sanitario inglese spende al giorno per un letto in Rianimazione.

È successo altre volte, ancora accadrà e di nuovo ci divideremo, perché tocca la parte più sensibile di ognuno di noi, l’essenza stessa dell’umanità. Proprio per questo servono leggi chiare, punto di riferimento preciso per le situazioni più complicate e per le altre che, invece, si moltiplicano. Lasciare soli i malati e le loro famiglie nella scelta estrema è un atto di pura viltà.

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