N on ha fatto tutto da sola per poi buttare il suo bambino infischiandosene della sua sorte: lo ha partorito in ospedale, per una settimana lo ha tenuto con sé, coccolato e nutrito. Gli ha dato pure un nome, Enea. Aveva già deciso, poiché aveva chiesto ai medici l’anonimato, così come è previsto dalla legge, quindi ha scritto un biglietto struggente. Ha avvolto il suo bambino in una coperta e lo ha portato in un luogo sicuro, dove sapeva si sarebbero presi cura di lui. “Ciao, il mio nome è Enea, sono nato in ospedale e sono super sano”.

Si chiamano “Culle per la vita”, ce ne sono 50 in tutta Italia, quella della clinica Mangiagalli di Milano è attiva dal 2007 e in quest’arco di tempo ne sono arrivati tre, Enea è il quarto. Non appena la madre ha chiuso la porta automatica sull’incubatrice riscaldata è suonato l’allarme che avvisa i medici. Le norme prevedono un’attesa di dieci giorni prima di avviare la procedura di adozione, il termine massimo per effettuare il riconoscimento del neonato.

Chissà che pensieri, che strazio, che dolore strapparsi una parte di sé. Davanti a scelte che sono tragedie nessuno dovrebbe permettersi di giudicare. Invece, è proprio quello che è successo e sta succedendo. La notizia, che sarebbe dovuta rimanere nel segreto dell’ospedale - quello dove è avvenuto il parto e quello dove il bambino è stato portato - si è diffusa in un battibaleno, complici gli implacabili social. Con la descrizione del neonato, il peso, la tutina che indossava. E c’è chi ha pure creduto di fare bene lanciando un appello alla madre.

C ome il primario della clinica Mangiagalli, che si è rivolto direttamente alla donna per dirle “noi siamo qui”, o come l’attore Ezio Greggio, che ha offerto il suo aiuto non solo economico e in un post ha addirittura distinto fra “mamma vera e mamma che dovrà occuparsene ma che non è la mamma vera”. Poi ha specificato che non voleva dire proprio quello, ma insomma, il primo post con tanto di video era così. E da lì via coi i commenti e i giudizi.

Bisogna sperare che quella donna viva fuori dal mondo, senza cellulare e senza internet, senza giornali e senza tv, che non possono far altro che accrescere il senso di colpa. Ha fatto una scelta e solo lei sa, ognuno di noi ha la sua idea ma quel che qui conta è che si tratta di una scelta legale, prevista e regolata dalla legge, che dovrebbe garantire con l’anonimato anche il silenzio. Per dirla in modo chiaro: non avremmo dovuto sapere nulla, questa vicenda sarebbe dovuta restare tra i pochi entrati in contatto con la donna per ragioni di lavoro, e stop.

Perché qualcuno ha sentito il bisogno di riferire tutto? Non ha pensato che cosa sarebbe successo e cosa avrebbe potuto provocare nella madre? Il bambino è al sicuro, verrà affidato a una famiglia che lo adotterà e avrà un futuro, forse migliore di quello che la madre non pensava di riuscire a garantirgli. Perché tutto questo rumore? Perché fare appelli sui giornali? Perché offrire aiuti davanti a una decisione devastante che non può non essere stata ponderata a lungo?

Quella madre ha voluto prendersi cura del figlio nel modo che le è sembrato più giusto. E si prenderà cura di lui anche la madre adottiva, perché non ci sono mamme vere e mamme non vere. Bastino a questo proposito le parole della scrittrice Maria Grazia Calandrone, candidata al Premio Strega con un libro sulla sua storia, simile a quella di Enea, come ha riferito a La Stampa: “L’abbandono può essere un atto d’amore estremo quando si pensa di non poter offrire ai figli una vita accettabile. Temo che il medico che ha chiesto alla madre di tornare da Enea abbia girato il coltello nella piaga mentre lei probabilmente si sta strappando un pezzo di corpo. Quella donna ha tutto il mio rispetto, nessuno fa una scelta così a cuor leggero, bisogna sostituire il sentimento dell’abbandono con la compassione per chi ha compiuto quel gesto”.

Questa vicenda dovrebbe farci riflettere sulla nostra spinta a commentare tutto e subito anche senza sapere e a prescindere dell’effetto delle nostre parole; sul rispetto delle leggi e delle persone, del loro vissuto, delle loro scelte; sui comportamenti di una società che in nome del buonismo non perdona. E, sì, anche sul perché non si fanno più figli.

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