C hi si oppone alla guerra avrebbe le idee confuse. Chi avanza dubbi sul ricorso all’uso indiscriminato dei missili sarebbe il solito “buonista”. Chi ripudia l’uso delle bombe vivrebbe il tabù della guerra, con l’illusione della pace perpetua, sotto la protezione dell’arsenale atomico americano. Costoro sarebbero i perfetti rappresentanti dell’Italia “di mezzo”. La tesi merita attenzione. Le guerre nascono e si alimentano per ragioni economiche e, purtroppo, spesso, per contrasti di natura etnica e religiosa. In molte parti del mondo alcune vicende storiche non hanno trovato ancora composizione.

I n primis quella israeliano-palestinese, perché, anziché affrontare alla radice la causa del conflitto, si preferisce lasciare accesa la miccia. La storia insegna che esistono due strade per fare cessare il conflitto: il dialogo e l’uso della forza. La prima è lunga e faticosa, richiede perseveranza e una radicale adesione ai principi di tolleranza e rispetto. La seconda soddisfa la sete di vendetta e spesso è stata la chiave di lettura per creare consenso. Nel caso del conflitto in Terra Santa, i due poli estremi si sono legittimati vicendevolmente. Amos Oz, già nel 1995, qualificò Hamas “come lo strumento migliore nelle mani dei fanatici israeliani. (…) Se non fosse per i crimini di Hamas, i falchi israeliani se la vedrebbero assai male, perché costretti ad accettare il processo di pace”, fondato sul riconoscimento di due popoli che vivono sullo stesso territorio. Queste due posizioni estreme trovano il sostegno in molte parti del mondo. Lo scrittore algerino Bonalm Sansal ritiene che ci si debba schierare quasi a occhi chiusi contro l’islamismo. Dall’altra parte, in un suo manifesto, Hamas “ha giurato di condurre una guerra santa contro gli ebrei in Palestina, fino al raggiungimento della vittoria di Allah”. Siamo di fronte al riacutizzarsi del fanatismo religioso che si fonda sull’intolleranza e sull’apparente reciproco delegittimarsi. Per Hamas, Israele è lo “Stato dei criminali sionisti”; per l’estrema destra israeliana, Hamas è lo “Stato terroristico”. Per queste due fazioni, e per molti intellettuali occidentali, la guerra è una strada obbligata, senza alternative. Pertanto, chi la rifiuta sarebbe un semplice “buonista”. Invece, opporsi a questa impostazione non è sinonimo di “buonismo” o di confusione culturale, ma è fatica e comprensione, riconoscimento dell’avversario e del “diverso”.

Ripudiare la guerra non significa abbandonare al loro destino gli oppressi e i diseredati, ma costruire percorsi efficaci di convivenza. Gli Stati democratici e tutti gli uomini di “buona volontà” devono frenare il ricorso alle armi con la diplomazia, l’uso proporzionato delle sanzioni e il sostegno alle popolazioni aggredite. Ripudiare la guerra significa aderire in pienezza alla Carta delle Nazioni Unite che esclude l’uso della forza nei rapporti internazionali.

Ripudiare il fanatismo significa fare tesoro della lezione che deriva da secoli di lutti e oscurantismo religioso, in nome del valore supremo della vita umana e della sua dignità; significa evitare di usare la religione come bene assoluto, in nome del quale compiere qualsivoglia efferatezza nei confronti di chi quella religione non professa. “Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio”, disse Gesù due giorni prima di morire in Croce. Lo affermò per separare le due sfere della vita, quella laica, dove credenti di tutte le confessioni unitamente ai non credenti sono chiamati a condividere il tempo e lo spazio del proprio destino, e quella religiosa, dove ciascuno troverà, se lo vorrà, linfa e motivazioni per vivere al meglio e, se possibile, migliora re la “casa laica comune”.

Allora, che continui il dibattito sulla guerra senza delegittimare o deridere chi contrasta l’uso della forza quale strumento di risoluzione dei tanti conflitti in corso nel mondo.

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