C hiedo perdono. Nel 2018 ho inopinatamente scritto un libro, L'Altalena di Apollinarija, sulla vita e le opere di Fëdor Dostoevskij. Non so cosa mi fosse venuto in mente, ma studiando per due anni il periodo prerivoluzionario russo mi ero imbattuto nel mistero di questo genio della letteratura e avevo cercato di approfondire il tema dei suoi amori, dei rapporti con lo zar e della sua morte. La ricerca della verità era diventata una sorta di miraggio (come per tanti studiosi prima di me): sembra infatti esistere un limite nella conoscenza possibile di Dostoevskij.

U n limite – come quello stabilito nella fisica quantistica dal principio di indeterminazione di Heisemberg – che rende questo scrittore unico, alieno. Mi ero dunque appassionato, cercate di capirmi, e la ricerca mi aveva indotto a prestare attenzione a quel particolare humus culturale, adatto per favorire gli “insiemi trasversali emergenti” che nascono da situazioni di compressione e poi di destrutturazione. Scrittori come Puškin, Gogol, Goncharov, Lermontov, Shevchenko, Turgenev, Nekrasov, Ostrovsky, Tolstoy, Leskov e Chekhov mi avevano colpevolmente incuriosito, come pure la contemporanea presenza di musicisti come Rubinstein, Kjui, Balakirev, Musorgskij, Tchaikovsky e Rimskij-Korsakov. Avevo scritto, orrore, che la Russia era uno dei poli culturali più turbinosi e fecondi, e non solo: in un altro mio libro, Francesca, avevo confessato che la sinfonia n.6 di Tchaikovsky, la Patetica, suonata dall’orchestra sinfonica della radio di Mosca, rappresentava il trionfo dell’amore contro l'arroganza della morte, e mi toccava profondamente.

A discolpa devo aggiungere che ho una certa età e la mia generazione poteva ancora contare su genitori che educavano, persino severamente. Dico questo perché mi sono stati inculcati principi che adesso trovo difficile ripudiare, comprendetemi. Ad esempio che lo sport e la cultura dovessero essere una zona franca dai derivati politici e ideologici e ovviamente dalle azioni militari, e fungere da luogo ideale nel quale continuare a parlare, a dialogare tra esseri umani, perché la costruzione della pace richiede il mantenimento di canali di contatto, discussione e abbraccio. Nel caso non si ritenga possibile costruire la pace, occorrerebbe fare la guerra e vincerla, come sintetizza Mario Sechi, non certo stare a considerare gli ucraini i soldati immaginari delle democrazie occidentali, sedute in salotto a guardare la tv – copio da Aldo Berlinguer.

Mi riesce dunque difficile, mi scuso, comprendere l’università Bicocca che pensa di censurare Dostoevskij perché russo, i sindaci di Milano e Monaco che licenziano Gergiev, celebre direttore d’orchestra, perché non abiura la sua patria, il Comitato Olimpico Internazionale che impedisce ai paraplegici russi di partecipare alle Paralimpiadi, la FIFA che mette al bando le squadre russe, addirittura la potente Electronic Arts che ha rimosso la Nazionale russa dai videogiochi. E mi riesce difficile, culturalmente e diplomaticamente, giustificare ministri e primi ministri che definiscono criminale, assassino e animale un qualsiasi capo di stato che non siano disposti a combattere e cancellare (ma dal quale comprino invece gas, petrolio, litio, ecc.).

Miei limiti, ripeto, confessando peraltro d’essere recidivo: ad esempio quando nel 1999 la Nato ha bombardato con oltre 38mila missioni aeree la Repubblica Federale di Jugoslavia, e l’Italia è di fatto entrata in guerra contro uno stato sovrano, io non ho creduto allo statista D'Alema e alla sua umanitaria Missione Arcobaleno – il cui successo è rimasto storico.

Oppure quando nel 2003 gli Stati Uniti hanno guidato una coalizione internazionale comprendente l'Italia per riinvadere l’Iraq e disfarsi di Saddam Hussein, colpevole di possesso (infondato) di armi di distruzione di massa (altro nostro vanto: un'operazione militare che ha causato, secondo The Lancet, tra 100 e 600mila morti, nonché abusi, torture e nefaste conseguenze delle sanzioni sui civili iracheni), io non ho smesso di credere nella cultura americana e nello sport, di comprare i libri di Roth, Bellow, DeLillo, Franzen, Morrison, di seguire la NBA e i film di Cruise, persino invitare in Sardegna scrittori della NYU. Lo stesso ai tempi della fuga dall'Afganistan. Nessuno è innocente – io non sopporto la “cancel culture”, la viltà intellettuale e le liste di proscrizione.

Manager e scrittore

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