P er millenni la maggior parte della popolazione mondiale ha vissuto nelle campagne. Era, infatti, l’agricoltura a fornire lavoro e mezzi di sussistenza alle persone. Le cose sono cambiate, almeno in Europa, con la diffusione dell’industrializzazione nel corso dell’Ottocento. Le città hanno cominciato a raccogliere masse di contadini che si spostavano nelle fabbriche alla ricerca di lavoro. Si sono ampliate, col tempo sono diventate sempre di più i luoghi dove trovare il meglio della modernità: teatri, grandi magazzini, ristoranti, ma anche parchi, università, ospedali e scuole.

I l fenomeno dell’urbanizzazione è diventato così una peculiarità delle società industrializzate dell’era contemporanea: nel 1950 la popolazione che viveva nelle città era di circa 732 milioni di persone, nel 2030 si stima che arriverà a circa 4,9 miliardi. Guardando le percentuali, nel 2015 il 54% della popolazione mondiale viveva nelle città, ma si stima che entro il 2030 la percentuale salirà al 60%.

Se è vero che i centri urbani hanno alimentato lo sviluppo delle società, è altrettanto vero che in essi si concentrano enormi contrasti. Con il rapido aumento dell’urbanizzazione, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo e caratterizzati ancora da una forte crescita demografica, sta aumentando anche l’impatto ambientale dei centri urbani a livello globale. Anche se le città occupano il 3% della superficie terrestre, sono le principali responsabili del 60-80% del consumo energetico. Sono anche responsabili del 75% delle emissioni di carbonio. Inoltre, la rapida urbanizzazione esercita una considerevole pressione sulle forniture di acqua dolce, sull’ambiente e sulla salute. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), si verificano 3,7 milioni di decessi all’anno nel mondo a causa delle sostanze nocive presenti nell’atmosfera. La maggior parte di queste morti avviene nei centri urbani.

Si può allora pensare a città che siano luoghi di benessere e non solo di lavoro e studio? Da molto tempo si parla di centri urbani che puntano a ideali più elevati che non il semplice assembramento di persone. Nel 1898, l’urbanista inglese Ebenezer Howard teorizzò le cosiddette “città giardino” in grado di garantire agli abitanti sia i benefici della vita urbana sia quelli della vita agreste. Due decenni dopo, nel 1922, l’architetto svizzero Le Corbusier presentava il suo modello di “Città contemporanea per tre milioni di abitanti”: grattacieli immersi nel verde, edifici residenziali con zone a uso comune, ampie arterie viarie e linee ferroviarie sotterranee.

Oggi però si deve guardare ancora oltre. I temi sui quali si devono confrontare gli urbanisti sono – e saranno – quelli legati alla sostenibilità ambientale delle città, all’ottimizzazione del traffico e dei suoi flussi, alla creazione di reti di trasporto efficienti e veloci, alla completa digitalizzazione delle comunicazioni in modo da ridurre gli spostamenti delle persone che potranno sempre di più lavorare da casa o in modo autonomo, alla creazione di aree verdi e spazi per il tempo libero. Un obbiettivo possono essere le “smart city”. Sono quelle città che cercano di far vivere bene i loro abitanti semplificando le loro giornate (al lavoro, negli spostamenti, a casa ecc.) e rendendo l’ambiente pulito e accogliente. Utilizzando soluzioni tecnologicamente avanzate, si ottimizza il consumo energetico (fonti rinnovabili), si sviluppa la mobilità “leggera” (biciclette, monopattini ecc.), si migliorano i servizi pubblici (trasporto, amministrazione ecc.). A Parigi, per esempio, si è realizzata la “Città dei 15 minuti”, uno spazio urbano in cui sia possibile raggiungere, ent ro 15 minuti a piedi da casa, tutto quello che serve per vivere. In questo modo, le persone non devono spostarsi con l’auto, riducendo traffico e inquinamento: è uno dei modi per salvare le città dal degrado e renderle davvero luoghi di comunità e benessere.

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