S arebbe utile se l’impennata negli sbarchi a Lampedusa non si limitasse a scatenare il dibattito sull’accoglienza dei migranti, ma suscitasse una discussione molto più lungimirante: quella sulla loro integrazione. Non v’è dubbio: il primo tassello del domino è responsabile della cascata che porta all’ultimo: ma è proprio del tassello finale che dobbiamo cominciare a discutere se vogliamo imparare a gestire, efficacemente e sul lungo termine, il sempre crescente numero di persone che cercano rifugio nel nostro Paese.

I n quest’ottica, è utile soffermarsi a valutare con scrupolosa attenzione il particolare caso di quel Paese della Comunità Europea che - in questi ultimi vent’anni – è stato letteralmente sommerso dal flusso migratorio (in gran parte proveniente dall’Iraq, dalla Somalia e dalla Siria) cui una classe politica incline all’accoglienza ha spalancato le porte: senza preoccuparsi delle tensioni sociali che un tale slancio di generosità avrebbe ingenerato. Sto parlando della Svezia, un Paese che conosco bene per averci abitato. Qui, l’improvvisa impennata dei flussi migratori ha innalzato la tensione sociale.

Alla stazione di Stoccolma, un adolescente rifugiatosi in Svezia da Kabul mi racconta una storia pazzesca. I dirigenti della scuola che frequenta avrebbero telefonato al padre per segnalargli un comportamento inaccettabile. In occasione di un compleanno, suo figlio avrebbe offerto in dono una tazza da tè alla madre di un compagno di scuola, macchiandosi di ben tre colpe: invadenza, indelicatezza, e opportunismo. “Suo figlio deve imparare a stare al proprio posto e a rispettare i confini che regolano i rapporti interpersonali in questo Paese!”. Basterebbe soltanto questo esempio da commedia dell’assurdo a descrivere la tensione sociale che regna in Svezia (il cui numero di cittadini, nati al di fuori dei confini nazionali, è quasi doppio rispetto a quello dell’Italia in proporzione al numero di abitanti), ma andrò avanti.

A un attraversamento pedonale, l’autista di un autobus si ferma e fa cenno a una madre e al suo bambino che possono attraversare la strada. Eppure, quando la donna si accorge che il guidatore è un immigrato, resta immobile. Non si fida. Non si sente sicura: e preferisce aspettare che un automobilista più simile a lei le ceda il passo. Mi vengono in mente l’albume e il tuorlo dell’uovo: separati da una membrana talmente sottile che, per preservarla, è necessario proteggerla anche soltanto da una punta di spillo. Non a caso, la maggior parte degli immigrati, in Svezia, vive in città come Fisksätra o in quartieri come Gottsunda che i bambini di Uppsala chiamano “Il ghetto”: palazzi popolari, alveari di cemento adatti a contenere esistenze lontanissime dal benessere.

Parlo con una dozzina di tassisti – qui sono quasi tutti immigrati – nessuno di loro ha mai avuto amici svedesi. E uno di loro precisa: “Gli svedesi non parlano mai con me durante la corsa. Comunicano soltanto l’indirizzo”. Chiedo lumi a due famose scrittrici di Stoccolma, ormai ottantenni. La prima mi convince poco, dicendomi che “gli stranieri si riuniscono volontariamente in posti come Fisksätra e Gottsunda perché a loro piace stare insieme”. La seconda precisa che, a differenza di noi italiani, gli svedesi non sono mai stati curiosi degli stranieri e che li hanno sempre temuti. Non sarebbe razzismo, dunque, ma semplicemente paura. Una paura che paralizza e impedisce la comunicazione, la dialettica e lo scambio. Ma soprattutto l’integrazione.

Se, un tempo, il 60% degli svedesi era favorevole all’immigrazione, oggi la situazione si è complet amente capovolta: e un partito di estrema destra è arrivato secondo alle elezioni, impegnandosi fin da subito per interrompere il flusso migratorio, responsabile – a loro dire - del decadimento dei salari locali. E la popolazione applaude.

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