U na bugia tira l’altra, se non si confessa subito bisogna andare avanti, con invenzioni sempre nuove, più grandi. Ma c’è un momento in cui arriva il conto. Per Riccardo si stava materializzando in quello del ristorante che i genitori avevano prenotato per festeggiare la laurea e poi in quello del viaggio-premio in Giappone. Ma non c’era nessuna tesi da discutere, così ha scelto l’unica strada senza ritorno.

L asciando il padre e la madre con i sensi di colpa di chi non ha visto, non ha capito, non si è reso conto. Riccardo aveva 26 anni e - dice ora chi lo conosceva - era cambiato col lockdown: aveva perso gli amici e si era chiuso in se stesso. Gli esperti lo dicono da tempo, le restrizioni legate al Covid avranno effetti negativi sui più giovani: l’assenza di socialità, la mancanza di contatto fisico, le mascherine a nascondere col volto l’espressione influiranno sulla loro crescita, dunque sulla loro vita. Spetta a noi adulti prestare attenzione ai primi sintomi di disagio.

Certo, è difficile per i genitori, che devono comunque spronare i figli, come hanno fatto il padre e la madre di Riccardo. Lo avranno pure rimproverato perché non superava quel benedetto esame, sempre lo stesso, finché un giorno era tornato a casa: “Ce l’ho fatta”. Ed è forse in quel momento che è cominciato tutto.

Non è la prima volta che succede, altri giovani hanno finto di essere arrivati al traguardo, altri prima di Riccardo hanno preferito la morte alla vergogna, la fine di tutto alla verità. Ma poi, è davvero vergogna? È davvero incapacità di assumersi le proprie responsabilità? Che cosa succede nella testa di un giovane che non riesce a mostrarsi così com’è? Forse noi adulti ci dobbiamo chiedere se quello che ci aspettiamo, o peggio, pretendiamo dai giovani è in sintonia con il loro carattere, le loro capacità, la loro sensibilità, le loro aspettative. È giusto indirizzarli e anche riprenderli, ma è necessario stare a sentirli in modo che non si limitino a compiacere gli adulti, verrebbe da dire le aspirazioni degli adulti. Non è il caso di Riccardo, che ha detto no all’azienda informatica di famiglia per le scienze infermieristiche, scelta autonoma, eppure è finita come è finita. Il disagio giovanile è una realtà con cui dobbiamo fare i conti anche in una società che vede ragazzini viziati impegnati per ore sui social e genitori che si fanno in quattro pur di accontentarli. Ma dietro quei silenzi, quei pomeriggi chiusi in camera, quei comportamenti aggressivi in casa o a scuola può esserci una situazione di difficoltà emotiva da non sottovalutare. Mai. La cronaca ci pone davanti a tante situazioni drammatiche, l’ultima è quella della dodicenne di Latina che si è lanciata dalla finestra durante l’ora di ricreazione, in classe, dopo aver detto a una compagna: “Apro, fa caldo”. Ha scritto una lettera, e l’ha lasciata sul banco, senza un destinatario, quindi per tutti. E ai soccorritori che l’hanno salvata ha detto una frase sconvolgente: “La vita fa schifo”. Che cosa ha vissuto quella studentessa poco più che bambina per arrivare a tanto? I genitori sono separati, vive con i nonni, sì: ma quanti ragazzini sono nella stessa condizione? Però, forse, a pensarci bene bisognerebbe ribaltare il ragionamento e soffermarsi sui molti ragazzi che vivono situazioni familiari analoghe: chissà quali pensieri abitano nelle loro menti. Siamo tutti responsabili - famiglia, scuola, istituzioni- e anche colpevoli perché andiamo di fretta e non stiamo ad ascolta re, non abbastanza. Si può fare, sotto i nostri occhi c’è un esempio, grandissimo: Bebe Vio, la campionessa paralimpica di scherma, ha raccontato più volte il ruolo del padre e della madre. Che davanti alla sua disperazione, l’amputazione di gambe e braccia (aveva tredici anni) le avevano detto: “La vita è una figata pazzesca”. Diciamolo ai ragazzi, anche se studiano poco, anche se non sono perfetti come vorremmo, anche se si perdono, perché proprio in quel momento ci stanno chiedendo di aiutarli a ritrovarsi.

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