L e donne iraniane usano i social per far sapere al mondo intero della loro battaglia contro lo hijab obbligatorio, pena il carcere e le frustate; il padre della travel blogger Alessia Piperno per lanciare l’allarme dopo il misterioso arresto a Teheran della figlia; centinaia di persone per mostrare il loro sdegno dopo i gravi episodi di bullismo in diretta televisiva ai danni di una persona fragile. Basterebbero queste tre recentissime storie per sottolineare l’importanza dei nuovi mezzi di comunicazione a disposizione di tutti in ogni angolo del pianeta, senza intermediari.

Ma in questi stessi giorni dal Regno Unito arriva una sentenza che ci porta a riflettere sul lato brutto dei social: se Molly Russel si è suicidata a 14 anni, nella sua cameretta, dopo aver cenato e visto la tv con i genitori, la responsabilità è di Instagram e Pinterest: hanno pubblicato materiale che non sarebbe dovuto essere a disposizione. La decisione del Tribunale di High Barnet, al nord di Londra, è straordinaria proprio perché riconosce l’impatto dei social network sui loro fruitori. I genitori della ragazzina ne sono stati sempre convinti, per questo hanno sostenuto una difficile battaglia legale, iniziata nel 2017 all’indomani della tragedia, contro Meta (la società che edita Instagram, Facebook e WhatsApp) e Pinterest.

È stata dura ma sono andati avanti forti di numeri impressionanti: nell’arco di sei mesi Molly è stata letteralmente bombardata, senza alcun filtro, da 2.100 post e 138 video, tutti negativi. Col risultato che la depressione di cui soffriva la ragazzina si è aggravata al punto da spingerla al suicidio. Il problema sollevato dai genitori di Molly - e fatto proprio dai giudici londinesi - è quello della sicurezza online dei ragazzi. Gli algoritmi che regolano il flusso delle comunicazioni non tengono conto della fragilità di chi guarda ma, se si ha la sventura di incappare nel primo messaggio negativo (per errore o per scelta), continuano a proporre contenuti dello stesso tenore.

Nel caso di Molly l’inchiesta ha provato che nei sei mesi precedenti il suicidio la ragazzina aveva condiviso un numero pazzesco di post e video tutti con lo stesso tema: depressione, suicidio, autolesionismo. La stessa indagine ha accertato che in quel periodo Molly è stata lontana da quel tipo di notizie per soli dodici giorni. Insomma, la vita della ragazzina è stata scandita da informazioni negative e il tragico finale è stato sostanzialmente indotto.

Vale la pena di riportare i passi salienti della sentenza che potrebbe, anzi, dovrebbe, indurre una rivoluzione degli algoritmi dei social media: “Alcuni di questi contenuti hanno romanzato atti di autolesionismo da parte di giovani, altri hanno invece cercato di scoraggiare la discussione con chi avrebbero potuto dare una mano d’aiuto. In alcuni casi il contenuto era particolarmente realistico, impressionante, e riteneva il suicidio come una inevitabile conseguenza di una condizione dalla quale non è possibile uscire”. L’analisi del giudice Andrew Walker è giustamente spietata: “È probabile che il materiale visto da Molly, già affetta da una malattia depressiva e vulnerabile a causa della sua età, abbia influenzato la sua salute mentale in modo negativo e abbia contribuito alla sua morte in modo non secondario”. Del resto, durante il processo i responsabili di Pinterest e Instagram hanno ammesso l’errore. Di più: hanno detto che i video pubblicati hanno violato le regole interne ai social.

La storia di Molly deve farci riflettere perché, pur senza arrivare al caso estremo del suicidio, l’influenza dei social sulla vita non solo dei più giovani può essere decisamente invasiva e negativa. Le regole ci sono, se non bastano devono essere modificate ma, soprattutto rispettate. Perché, è inutile negarlo, i social sono il mezzo di comunicazione più efficace, ed è difficile starne fuori. Dobbiamo essere controllori di noi stessi e dei nostri ragazzi ma dobbiamo anche pretendere principi ferrei. I genitori di Molly lo hanno fatto e il loro coraggio nello sfidare i giganti delle piattaforme digitali è encomiabile, anche se per la figlia era troppo tardi.La loro battaglia servirà però a tutti gli altri, ragazzi e fragili del mondo, e a chi, come noi, vuole che i social restino un presidio di libertà che possa mostrare al mondo la lotta delle donne iraniane, consentire al padre di Alessia Piperno di chi edere aiuto e costringere le produzioni televisive al rispetto della dignità umana.

© Riproduzione riservata