L ’ abbiamo vista per pochi secondi, conosciamo il suo nome, Marina Ovsyannikova, sappiamo che è una giornalista del Primo Canale russo, e non riusciamo a togliercela dalla testa. Hanno coperto il suo volto, e soprattutto il suo cartello “qui vi stanno mentendo”, e poi nulla. L’hanno arrestata, ed è ricomparsa dopo ore in Tribunale, dov’è stata condannata a una multa e rilasciata. Sapeva quel che faceva, altrimenti prima della clamorosa irruzione in studio durante la diretta del principale tg russo non avrebbe registrato un video, a casa: contro la guerra, la propaganda, le bugie.

C i vuole coraggio. Con buona pace di chi pensa che i giornalisti veri siano soltanto quelli che si sporcano le scarpe nel fango: ognuno combatte come può e dove può. Marina Ovsyannikova ci ha messi davanti alla guerra vista dall’altra parte, o meglio, la guerra che si vuole nascondere all’altra parte, con la chiusura delle tv indipendenti, lo stop ai social, le minacce di arresto per chiunque pronunci la parola invasione. Abbiamo il dovere di seguire le sorti di quella giornalista, noi che possiamo accapigliarci su fake news e disinformazione, scendere in piazza, manifestare contro la guerra per poi riavvolgere le bandiere e tornare a casa. In città non tanto distanti da noi si finisce in galera pure se porti un cartello bianco, perfino se vuoi sostenere Putin, non ti risparmiano neppure se sei bambino e depositi un fiore per i morti in Ucraina o se hai 90 anni e sei sopravvissuta all’assedio nazista di Leningrado: quanta dignità in quella vecchina che si consegna a mani troppo forti per il suo fragile fisico. Nei primi giorni del conflitto il titktoker russo poteva ancora sistemarsi davanti alla metro e chiedere ai passanti di abbracciarlo se fossero stati contro la guerra: uomini e donne, vecchi e bambini gli buttavano le braccia al collo, e noi tiravamo un sospiro di sollievo. Ora però è finita. Se una troupe televisiva cerca opinioni tra i cittadini questi vengono bloccati. Quattordicimila finora gli arresti.

Tutti quelli che scendono in piazza staccano un biglietto per il carcere, e si fanno accompagnare dai poliziotti verso l’ignoto che ora è un po’ più noto, grazie al video registrato da alcuni fermati: insulti e torture, minacce e pestaggi. Il coraggio di osare ancora, di più. Non saranno tanti quanti auspica Aleksej Navalni, ma chi manifesta rischiando 15 anni di galera e il posto di lavoro è l’eroe normale di questi tempi bui. Come i 115 scienziati russi o i quattromila studenti che insieme ai professori dell’Università di Mosca hanno firmato un documento contro la guerra. Gesti tutt’altro che simbolici: manifestare per la libertà di tutti a costo della propria. Sì, ci vuole coraggio.

Che poi è lo stesso dei giornalisti al fronte: sono lì, vedono, documentano e poi sopportano gli attacchi di chi li vede impostori, truffatori, manipolatori. Il reporter che ha fotografato le partorienti in fuga dall’ospedale ha certo saputo che qualcuno ha davvero creduto alla propaganda filo Putin che le voleva attrici. Talmente brave che una è morta col suo bambino mai nato. E’ solo una delle storie nell’immane disastro umanitario alle porte dell’Europa, e noi la conosciamo grazie a quei reportage che ci tolgono il sonno. Lo sappiamo bene: quando inizia una guerra finisce la verità. Proprio per questo diciamo grazie a chi rischia la vita per cercarla. E raccontacerla.

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