L a fuga di cervelli dalla Sardegna colpisce anche chi vive di rendita. In un mondo fatto di forti interconnessioni come quello attuale, i singoli mercati non sono più distanti. E ogni turbolenza, che provoca riflessi negativi sul fronte della crescita culturale della popolazione, incide pesantemente anche su chi vuole solamente curare il proprio orticello forte della ricchezza accumulata in passato.

Mandare un figlio all’Università è un investimento per il futuro, fare scelte politiche oculate è un investimento per la propria terra.

Q uindi fermare la diaspora significa far crescere la ricchezza del proprio popolo. Lo dicono i dati economici dell’Eurozona: il valore dei beni immobiliari cresce di più nei luoghi, nelle città e nei Paesi che sono più dinamici sul fronte delle attività lavorative. Per esempio, Milano, Bologna e Parma in Italia sono tra le città dove le quotazioni immobiliari tengono maggiormente. Così come i prezzi delle case sono decisamente più dinamici a Cagliari che a Nuoro o Oristano. Questo dipende, secondo gli economisti, da una relazione diretta che si crea tra le dinamiche del lavoro e il mercato del mattone.

A comprare una casa, infatti, sono certamente i giovani che trovano un’occupazione più o meno stabile oppure le persone che nel corso della propria attività professionale fanno carriera e quindi si possono permettere dopo qualche anno un’abitazione più ampia e bella di quella acquistata inizialmente. Il mercato dunque diventa sempre più dinamico, come succede spesso nel Nord Europa, dove i prezzi degli immobili crescono in maniera consistente e riescono anche ad assorbire l’inflazione. Cosa che accade meno nel nostro Paese, soprattutto in zone in cui l’economia soffre.

Certo, ci sono esempi positivi anche da noi. Nei giorni scorsi, Paolo Carta ha raccontato sull’Unione Sarda che alcune famiglie hanno deciso di trasferirsi in Trexenta. Bellissimo. La necessità di vivere in un luogo accogliente è sempre più sentita, soprattutto dopo la pandemia. Il punto però è un altro: non facciamoci traviare dai fatti sporadici. La verità è che per far crescere la ricchezza di un luogo devono concorrere tanti elementi: servizi per i cittadini, sicurezza, lavoro e attività produttive. Se uno di questi elementi viene meno, anche gli altri potrebbero essere messi in secondo piano. In Sardegna si vive benissimo, il clima è fantastico e la densità demografica permette anche di evitare il traffico delle grandi città. Ma se non c’è un lavoro, tutto questo non basta. E il lavoro lo si crea con gli investimenti, non solo materiali, ma oggi più che mai, immateriali: cultura, studi, specializzazioni.

Il mondo globalizzato permette di studiare anche a distanza, specializzarsi al meglio, diventare degli ottimi professionisti. Poi, però bisogna produrre. Mettere a frutto gli studi in un ambiente che sia pari a ciò che si è studiato. Certo non tutti gli scienziati possono trovare il lavoro a due passi da casa. E ci sono anche aziende sarde che lavorano in settori innovativi che attraggono personale dalla Penisola o dall’estero: magari offrono uno stipendio pari a un’azienda di Milano o Roma ma pure la possibilità di una pausa pranzo al Poetto, che vale molto di più dei buoni pasto o del premio di produttività. Sono però casi isolati, almeno per ora.

D’altro canto, se si iniziasse a recuperare le attività più tradizionali con l’uso di tecnologie avanzate, con una logistica più moderna e con investimenti intelligenti e non legati solo ai progetti che da anni abbiamo nel cassetto e che non servono più, allora si potrà dire che l’economia si muove all’u nisono, a 360 gradi. È l’unico modo per attenuare la fuga di cervelli. E questo lo possono fare solo i decisori politici, sempre che ne abbiano coscienza. Altrimenti, continueremo a raccontare le storie dei sardi che si affermano all’estero e che guardano all’Isola con la nostalgia di chi vorrebbe vivere qui ma non lo può fare. Pronti magari a regalare loro un premio come nuorese o sassarese dell’anno, solo per lavarci la coscienza su quello che avremmo potuto fare e non abbiamo fatto.

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