S arà anche vero che Draghi è un grillino, come ha detto Beppe al termine delle consultazioni, e che il ministero per la Transizione ecologica è un successo dei pentastellati. Ma dalla crisi politica innescata da Matteo Renzi il M5s ne esce a pezzi e dà l'impressione di essere sul viale del tramonto. L'emorragia di voti si è manifestata nella più recenti consultazioni regionali e amministrative un po' in tutta Italia, e sarà inarrestabile quando il Paese tornerà alle urne per eleggere il nuovo Parlamento. Cerchiamo di spiegare perché.

L'irruzione di Beppe Grillo nel panorama politico italiana ha avuto la forza di un tornado. Dalla crisi della Prima Repubblica determinata da Tangentopoli, il quadro politico si è frammentato, al potere si sono alternati maggioranze e premier diversi, ma nessuno di essi è riuscito a promuovere una stagione di riforme, senza le quali non è pensabile porre fine alla crisi economica che attanaglia il Paese da ben prima che esplodesse la pandemia. È dai primi anni novanta, infatti, che l'Italia conosce un declino economico. E che le riforme siano legate al rilancio lo dimostra il fatto che l'Europa vincola l'erogazione dei 209 miliardi del Recovery Plan non solo ai progetti ma alle riforme. Per la variegata maggioranza di Draghi sarà questo lo scoglio più arduo.

Tutti gli ultimi presidenti del Consiglio (Berlusconi, D'Alema, Prodi, Letta, Renzi) non sono riusciti a porre mano alla modernizzazione dell'Italia. La durata dei Governi è stata la stessa di quelli della Prima Repubblica, un anno o poco più.

A llora, i partiti, sempre gli stessi (Dc, Psi, Psdi, Pli e Pri) si alternavano al Governo con varie formule. A volte gli esecutivi cadevano solo per riequilibrare i rapporti di forza tra le correnti democristiane e si ricorreva persino ai “governi balneari”, escamotage politici che dovrebbero far arrossire chi li attuò. Storia vecchia.

Nella cosiddetta Seconda Repubblica, gli esecutivi sono sempre stati in balia del guastatore di turno, da Bertinotti a Renzi, e sono durati un anno o poco più. Con la sola eccezione del Berlusconi II (in carica dal 10 giugno 2001 al 23 aprile 2005) che comunque non è riuscito a imprimere la svolta.

Quando Grillo è sceso in campo con il “Vaffa day”, il Paese era esasperato, per le ruberie della Prima Repubblica (ma anche la Seconda non scherza), per i soprusi, per la lentezza della burocrazia, per la farraginosità della giustizia. Un italiano su quattro diede il voto alle Cinque Stelle sorte nel cielo politico italiano. E quando Di Battista e Di Maio annunciarono che avrebbero aperto il Parlamento «come una scatoletta di tonno», un italiano su tre ci credette.

I pentastellati, poi, raccolsero i consensi di un movimento diffuso che si opponeva alle grandi opere pubbliche considerate, non a torto, visti gli esempi del passato (dal Mose all'autostrada Salerno-Reggio Calabria), causa di colossali sprechi. Dire no alla Tav in Val di Susa, al Tap e all'Ilva in Puglia, al Ponte sullo Stretto di Messina aveva permesso ai pentastellati di raccogliere sotto una sola insegna il movimentismo del territorio. Il risultato è che la Tav sta andando avanti, che il Tap (il gasdotto trans-Adriatico) è stata ultimato e sta funzionando, e che l'Ilva, non fosse per immani problemi ecologici e giudiziari, avrebbe ripreso l'attività.

In pratica, il M5s ha perso la purezza degli esordi, quando urlava al mondo che mai avrebbero fatto alleanze. Lo ricordava il giornalista Aldo Cazzullo in televisione, l'altro giorno: «Quando chiesi a Grillo con chi avrebbe fatto le alleanze, rispose che era come chiedere a un Panda di mangiare carne cruda». Beh, i grillini di tartàre ne hanno ingoiate in abbondanza: la Lega di Salvini prima, il Pd di Zingaretti poi, questi due più addirittura Forza Italia di Berlusconi adesso. Perdere senatori, deputati e consensi è stato un tutt'uno. Sembra passato un secolo quando Grillo parlava davanti a centinaia di migliaia di persone in piazza del Popolo a Roma mentre Bersani chiudeva la campagna elettorale nel rassicurante teatrino Ambra Jovinelli, capienza di ottocento posti, culla dell'avanspettacolo.

Da allora il M5s ha percorso la via degli accordi, dei compromessi e ha perso la forza che gli dava l'essere un movimento di protesta, che convogliava la sempre più folta schiera di chi aveva in odio (con qualche ragione) i partiti tradizionali e i politici in genere, incapaci di modernizzare il Paese e di renderlo più giusto. Lo slogan grillino “uno conta uno” incarnava il legittimo desiderio di tanti italiani di vedere premiato il merito, di non vedersi superati da chi aveva meno titoli ma più amicizie o parentele. In fondo il successo di Giuseppe Conte, l'illustre sconosciuto arrivato sino al vertice del potere (un po' come Celestino V assurto a sorpresa al Soglio di Pietro ma ben presto scalzato dai giochi di potere), deriva proprio dal fatto che incarnava il sogno dell'italiano normale approdato a una posizione di prestigio in virtù delle proprie capacità. È stato un miraggio durato qualche anno. A farlo svanire è stata l'operazione Draghi, messa in piedi dal principe dell'intrigo. Sì, quello dell' “Enrico, stai sereno”.

IVAN PAONE
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