A riaprire ancora una volta il dibattito sulla necessità di pubblicare o meno immagini "forti" che possono ferire la sensibilità di chi guarda, sono stati gli scatti del raid di due giorni fa sul piccolo centro siriano di Duma, l'ultima roccaforte dei ribelli nella Ghouta, compiuti, secondo i testimoni e i medici che hanno soccorso le vittime, con una miscela micidiale di gas e armi convenzionali.

Ancora una volta la visione degli orrori della guerra scuote le coscienze. Soprattutto se le tra le vittime ci sono bambini inermi, immortalati nella loro sofferenza e nel terrore da fotografi e operatori tv.

E come capita spesso in questi casi, c'è chi ha scelto di far vedere sui giornali e sul web i volti dei bambini con le mascherine durante i primi soccorsi, e chi invece ha preferito oscurarne i volti o raccontare l’orrore "solo" a parole.

Ma questo per la stampa, la tv e oggi anche per i nuovi media è un dilemma che arriva da lontano, da quando il giornalismo si è fatto testimone diretto, talvolta in prima linea, delle guerre e dei drammi del mondo: pubblicare e far vedere in tutta la crudezza gli effetti dei conflitti o fare un passo indietro, nel rispetto della dignità umana, soprattutto quella infantile.

Se lo sono chiesto durante la seconda guerra mondiale, quando per le strade delle città europee i reporter di guerra immortalarono i bambini terrorizzati e affamati tra le macerie, o quando circolarono le immagini dei piccoli sopravvissuti a Hiroshima e Nagasaki, tra cui quella citata di recente da Papa Francesco del bimbo che porta il spalla il fratellino morto e aspetta il proprio turno per far cremare il corpicino senza vita.

Se l’è poi domandato il New York Times nel giugno del 1972, quando in redazione arrivò lo scatto del fotografo Nick Út dell’Associated Press che ritraeva la piccola Kim Phuc nuda in fuga alle bombe al napalm sganciate sul villaggio dei suoi genitori, a 40 miglia da Saigon.

Dal Vietnam all’Irlanda, coi bambini nelle strade di Belfast militarizzate, alle piccole vittime del conflitto israelo-palestinese, delle guerre civili nella ex Jugoslavia e in Rwanda, e poi in Iraq, Afghanistan e Siria, con l’immagine indelebile del piccolo Omran Daqneesh, seduto su un’ambulanza insanguinato e coperto di polvere dopo esser scampato alle bombe su Aleppo.

E oggi è il caso dei bimbi di Douma, le più innocenti tra le vittime della guerra senza fine che da sette anni lacera la Repubblica mediorientale, con un bilancio di morte che oscilla tra le 300 e le 400mila anime e 11 milioni di sfollati, in parte sfuggiti dal Paese oppure ancora costretti entro i suoi confini.

Un dramma che va raccontato, anche attraverso la fotografia. E un dilemma, quello della stampa, che continuerà a presentarsi alle coscienze degli addetti ai lavori, non tanto per quel falso mito che li vorrebbe tutti cinici e spietati cacciatori di scoop a qualsiasi costo, quanto piuttosto per il dovere di raccontare la realtà per quella che è.

A volte atroce.

Barbara Miccolupi

(Unioneonline)

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