Sono stati fissati per domani, a Mandas alle 17, i funerali di Paolo e Claudio Calledda, i gemelli uccisi dalla mamma che poi si è tolta la vita. La cerimonia sarà officiata da Monsignor Arrigo Miglio, arcivescovo di Cagliari.

"Li immagino in un prato colorato. Corrono felici in mezzo ai fiori. Finalmente spensierati, senza problemi, senza malattie. Sorridenti. E spero che mi aiutino: una vita senza Paolo e Claudio, i miei fratellini, i bambini, non l'avevo mai immaginata e non so proprio come affrontarla".

Monica Calledda fa la veglia nella camera mortuaria del Policlinico ai due gemelli uccisi giovedì dalla madre Angela, che poi si è suicidata. Medico di base, specialista in prestito alle guardie mediche dell'Oristanese nell'attesa di un ambulatorio tutto suo, a 44 anni deve affrontare un dolore disumano, al quale non era preparata e per il quale non esistono terapie: organizzare per mercoledì il funerale della madre e dei due gemelli. La tragedia di Mandas, hanno titolato i giornali. È un dramma soprattutto suo. Lo affronterà da donna forte come è sempre stata. Anche adesso, con il cuore diventato piccolo piccolo e gli occhi che non smettono di scorrere le fotografie dei bambini.

Può perdonare sua madre?

"Chiedo silenzio e preghiere. Ma sia chiaro: non ho niente da doverle perdonare. Soffriva di depressione da qualche anno, stavo molto attenta a quel che poteva succedere, chiamavo a casa a Mandas due-tre volte al giorno. L'avevo fatto anche giovedì scorso: non ero in vacanza, stavo lavorando. Non potevo immaginare, prevedere, sapere. Anche se in fondo al mio cuore non ero mai tranquilla".

I suoi fratelli da quando erano malati?

"Dalla nascita, 41 anni fa".

Di cosa soffrivano?

"Guardi, se sono diventata medico non è merito mio. Ci sono riuscita grazie alla forza che mi hanno dato loro: mai una lacrima, un lamento. Ricoveri su ricoveri, sempre sorridenti. Coraggiosi. Io ho studiato medicina anche per cercare di capire il loro caso. Nessuno aveva detto a mia madre che era in attesa di due gemelli, gli specialisti se ne sono accorti solo durante il parto, che non è stato facile. Forse non è arrivato per qualche istante ossigeno nel loro cervello, è l'unica spiegazione scientifica che ho saputo trovare, ho fatto fare anche analisi cromosomiche per approfondire, per non arrendermi".

Ricorda il loro arrivo a casa?

"Benissimo, anche se avevo solo tre anni, erano in braccio a due signore bionde. Ero contenta. Mia madre, casalinga, e mio padre, ferroviere, erano invece preoccupati. Si erano accorti che qualcosa non andava, secondo loro i miei fratellini erano strani. Li hanno portati all'ospedale Gaslini di Genova. Diagnosi: lieve ritardo mentale".

La forza di una famiglia si vede in quei momenti.

"Ai due bambini non è mai mancato niente: soprattutto affetto, amore. Claudio era più pacato, adorava i pupazzetti di Babbo Natale, quelli che si animano. Paolo era più vivace, gli piaceva molto guardare la televisione, aveva tanti dvd con i cartoni animati. Io ho avuto un legame forte con entrambi, ma soprattutto con Claudio, perché ha sofferto di più. Dall'età di quattro anni ha cominciato ad avere crisi epilettiche".

Il vostro rapporto?

"Chi dà amore, ne viene travolto. E con loro, i gemellini, ci adoravamo. Mi dicevano, Monica, quanto sei bella, metti quei capelli dietro le orecchie altrimenti ti nascondono il viso. E mi accarezzavano la faccia, gli occhi. Avevano bisogno del contatto fisico, e io del loro. Certe volte un abbraccio è più importante di mille parole".

Quasi la terza gemella?

"Quando vivevo a Sassari per studiare all'Università, oppure quando mi sono trasferita a Sant'Antonio Ruinas, avvertivo sempre quel legame che possono capire solo i fratelli nati insieme. Stavano male loro, e anche io. Forse facevo loro anche da madre: mi preoccupavo che per loro tutto filasse liscio".

La loro infanzia?

"Sono andati regolarmente a scuola, a Mandas, hanno frequentato parrocchia e catechismo. Hanno fatto prima comunione e cresima, il loro ritratto in abito blu gessato bianco, riga da una parte, belli, sorridenti e con la cravatta è l'immagine fissa del mio telefonino: sempre vestiti uguali, era difficile distinguerli l'uno dall'altro. Volevano gli stessi pantaloni, le stesse scarpe. Mio padre li portava dappertutto, anche allo stadio a vedere la partita del Cagliari".

Ricorda un episodio particolare?

"Babbo li portava spesso in giro in motorino per le strade di Mandas. Quella volta, con Claudio nel sellino posteriore, era caduto. Chi ha assistito al piccolo incidente si è preoccupato delle loro condizioni, era stato Claudio a tranquillizzare tutti: non mi sono fatto niente, solo qualche graffio. Perché erano così, l'ho già detto, coraggiosi".

Poi la morte di vostro padre.

"I gemelli ne avevano sofferto molto. Babbo aveva 55 anni, dieci anni fa un tumore al cervello se l'è portato via in poco tempo. I bambini erano molto legati a lui, avevano bisogno di un rapporto con una persona forte, di una presenza maschile, così si sono affezionati molto a mio marito, il loro modo per superare un lutto così grave".

Riuscivano a parlare?

"Paolo sì, Claudio aveva smesso da tempo, perché a sedici anni le loro condizioni di salute si sono aggravate così, inspiegabilmente. E peggioravano di mese in mese. Tante volte negli ultimi tempi li ho accompagnati all'ospedale: soprattutto crisi respiratorie. Claudio da due anni viveva attaccato a una bombola di ossigeno. L'ultima crisi a ottobre, ricoverato in Rianimazione".

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Situazione difficile da gestire per chiunque, figuriamoci per Angela Manca: da quando era rimasta vedova si è ritrovata sola con i due gemelli, aiutata da alcune assistenti, ad affrontare una montagna di problemi che cresceva sempre di più. Qualche anno fa il crollo psicologico: depressione. Le fucilate di giovedì hanno messo fine alle sofferenze, certo, e a una grandissima storia d'amore, come quelle che soltanto in certe famiglie possono nascere e fiorire.

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Sua madre ha lasciato una lettera d'addio.

"L'abbiamo sentito dalla televisione. Nessuno mi ha detto niente, non me l'hanno fatta neppure vedere, ce l'ha il magistrato. Eppure se c'è una persona che ha diritto di sapere, quella sono io".

Sono giorni di dolore assoluto.

"Io adesso non so come andare avanti. Ringrazio una collega: mi ha scritto in un messaggino: da ottimo medico adesso ti prenderai cura dei malati come se fossero i tuoi fratellini. Questo pensiero mi ha tirato un po' su. Mi aggrappo a questa idea perché non voglio una vita senza Paolo e Claudio, non ne immaginavo una diversa da quella che ho sempre amato, al loro fianco. Adesso voglio restare con loro sino all'ultimo, qui, nella camera mortuaria. So che sono li dentro, vicini uno all'altro, vestiti da mia madre con la loro magliettina rossoblù del Cagliari, la preferita. Con quella adesso finalmente potranno correre in un prato infinito. Mano nella mano".

Paolo Carta

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