Un omicidio in presa diretta. Un film dell'orrore avvenuto davanti agli occhi di diversi testimoni impotenti. Altri se non hanno visto hanno sentito: innanzitutto gli spari, poi le grida di paura degli studenti che scappavano davanti al corpo dilaniato dai pallettoni di Gianluca Monni, lo studente di Orune ucciso alle 7 del mattino di due anni fa mentre aspettava il pullman che lo avrebbe portato a scuola.

È entrato nel vivo oggi il processo a carico di Alberto Cubeddu di Ozieri per il duplice omicidio sia di Monni che di Stefano Masala di Nule.

Delitti che avrebbe commesso in concorso con suo cugino Paolo Pinna di Nule (già condannato a venti anni di reclusione dal Tribunale dei Minori di Sassari), protagonista appena un mese fa di una rocambolesca fuga dal carcere di Quartucciu.

Il movente? Lavare con il sangue l'onta di un pestaggio subito da Pinna cinque mesi prima a Orune.

Intrisa di commozione e dolore l'udienza fiume di ieri andata avanti fino al tardo pomeriggio quando si sono concluse le deposizioni dei primi testi - una quindicina in tutto - citati dall'accusa.

A parlare con il groppo in gola, a tratti con la voce spezzata dall'emozione per un dolore ancora troppo forte e vicino, ci sono le donne di Orune con il loro coraggio. Le loro parole fanno accapponare la pelle. Non fanno sconti, raccontano tutto e quando lo ritengono aggiungono anche sensazioni al dato prettamente di cronaca. Iniziando da Rita Gaddeo, la mamma di Gianluca, ma anche per la giovanissima Eleonora, la fidanzata ventenne della povera vittima e proseguendo con sua madre Giovanna Moreddu. Età diverse ma sensibilità comuni.

Rita Gaddeo sollecitata dalle domande del pm rievoca quel litigio avvenuto la sera di Cortes apertas nella sala da ballo. "Gianluca non aveva armi. È stato ucciso con il libro in mano", rimarca, nella sua lunga deposizione che si sofferma poi anche sull'incontro e sulle ripetute telefonate avute con il padre di Paolo Pinna, Roberto. "Un giorno li incontrammo a casa nostra, ma avemmo subito l'impressione che non erano venuti a chiedere scusa ma aiuto per recuperare la pistola sottratta al figlio quella notte quando avvenne il pestaggio. Mi chiamò altre volte. Un giorno rimasi basita perché mi disse che era il compleanno del figlio e voleva fargli avere la pistola".

Eleonora Pala, quella maledetta mattina del 8 maggio era sul pullman sul quale doveva salire anche il suo Gianluca. Ieri anche lei con voce bassa ma ferma ha rievocato quei momenti di follia cieca, la confusione iniziale, la paura e la terribile scoperta.

Poi anche il suo racconto è tornato indietro a quella notte del 13 dicembre quando scoppiò il litigio con quel ragazzo di Nule che non aveva mia visto prima. "Ci dava fastidio, mimava dei gesti. Gli è stato detto di smettere. Ma non ha ascoltato. C'era confusione, poi è rientrato nella sala con una pistola che mi è stato detto ha puntato in faccia a Gianluca".

Altrettanto forte e commuovente la sintesi di sua madre, Giovanna Mureddu. "Era il figlio che tutte le mamme volevano avere, adorabile, sorridente, rispettoso. Una personalità semplice e ricca di valori".

Intanto, dalla deposizione articolata del maresciallo Roberto Vagelli che ha svolto i rilievi e analizzato fotogrammi delle videocamere emerge con chiarezza che la macchina presente a Orune da cui scende il killer che uccide Gianluca è quella di Marco Masala padre di Stefano e poi bruciata il giorno successivo a Pattada.

Prima di lui interessanti anche le testimonianze di Antonio Pala, vigile urbano che vide un giovane scendere da un'utilitaria grigia e sparare, della zia del giovane Monni Maria Maria Giovanna che vide dalla finestra di casa il delitto e del sarto Luigi Porcu che vide passare più volte quell'auto sospetta davanti alla sua bottega.

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