Entro. Ufficio pubblico: segreteria dell’ippodromo. Dieci del mattino, nel giorno dei Santi. Villacidro. Un anello per cavalli che costa l’ira di Dio e che elemosina qualche gara all’anno pur di sopravvivere.

Buongiorno, e sorrido. Sono Gianluigi Deidda. Sono un giornalista. Pausa, in attesa della reciproca presentazione. Mi hanno insegnato, sin da bambino, che se saluto e mi presento altrettanto deve fare chi ho davanti. Invece, niente da fare.

Devo sollecitare: scusi, lei chi è? La risposta è imbarazzata, come se non lo sapesse nemmeno lui. Prende fiato, preso alla sprovvista da una domanda così impegnativa: "Sono Cellini Claudio".

Incalzo con la curiosità: cosa fa qui? Ancora imbarazzo: "Sono il segretario dell’ippodromo". E di cosa si occupa? "Di tutto, delle iscrizioni, dei rapporti con il ministero, delle gare".

Al suo fianco una giovane ragazza seduta alla scrivania lavora al computer. La signorina lavora con lei?, chiedo. Mai avessi osato, il baffetto di Cellini in un nanosecondo si contorce, ispido come il pelo di un cinghiale rincorso da una muta di cani. Cosa mai avrò osato chiedere? "La signorina è presa dal comune", mi risponde stizzito. Come presa dal comune - rispondo - assunta dal comune? Cellini mugugna qualcosa tipo: "Noooo, non mi faccia dire cose…". Chiedo conferma alla diretta interessata: muta, manco un pronome. Cellini interviene duramente alzando la voce: "No, no, non dire niente al signore, se vuole delle informazioni chieda al comune".

La conversazione si surriscalda e i toni si fanno irruenti. Cellini d’Abruzzo, venuto a Villacidro a fare il segretario dell’ippodromo reagisce: "Cosa importa a lei cosa fa la ragazza?". Ribadisco: sono un giornalista, sono in un ufficio pubblico, ho diritto a sapere con chi parlo e quale funzione svolge e a che titolo, visto che nessuno dei due indossa un cartellino di riconoscimento come prevede la legge.

Il nervo è inspiegabilmente scoperto.

Ci fa cenno di accomodarci fuori, devono lavorare. Ribadisco: le sto chiedendo delle informazioni che lei è tenuto a darmi. A quel punto il lampo di genio di Cellini ricorre alla fatidica frase minaccia: "Chiamo i carabinieri!". Osservo incredulo a quella che mi appare una sproposita ed esagitata reazione per una modesta e umile richiesta di chiarimenti. Del resto è compito di un giornalista informarsi, indagare, scoprire come vengono spesi i soldi pubblici, e per giunta in un pozzo senza fondo. Ed è non solo lecito ma anche doveroso sapere chi occupa un ufficio pubblico, a che titolo e se l’ha mandata qualcuno.

Gli chiedo se ha bisogno del numero di telefono dei carabinieri. Comincia a saltellare, come indispettito. Se chiama i carabinieri è costretto a far identificare tutti i presenti. Ma forse c’è qualcosa che è meglio non cristallizzare in un verbale. La pantomima finisce. Non chiama i carabinieri, lascia l’ufficio e non dà alcuna risposta.

Nel giorno dei Santi l’uomo dei sorteggi, delle corse, venuto da lontano a gestire le corse a cavallo se ne va. Indispettito perché si cerca di rendere trasparente ciò che appare, per molti versi, poco chiaro e a volte opaco.
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