L'alba e la notte, tutto in un sol giorno. È soffusa la luce d'estate che filtra dal Velario sull'aula di Montecitorio. È pomeriggio inoltrato quando Umberto Elia Terracini, partigiano della prima ora, Presidente dell'Assemblea Costituente, apre i lavori della seduta del 21 luglio del 1947. All'ordine del giorno dell'assise chiamata a scrivere le fondamenta della Repubblica c'è una mozione. La prima firma è di Emilio Lussu, il capitano della Brigata Sassari. Ci sono tutti, in quell'aula tanto solenne quanto austera. I volti della storia d'Italia, e per molti versi quelli della travagliata autonomia dell'Isola di Sardegna. Sono tutti lì, come se il tempo li avessi inchiodati alle loro responsabilità.

Andreotti & De Gasperi

Ci sono Andreotti e Togliatti, La Malfa, De Gasperi, Scelba, Fanfani. E poi c'è Emilio Lussu, il più sagace e rispettato. Tagliente e irriverente, sottile e arguto. Quando si tratta di difendere la causa sarda, sfodera il fioretto, tralasciando per un attimo la baionetta. Non è solo, il Cavaliere dei Rossomori. La sua mozione raccoglie firme di peso, quasi a segnare la trasversalità culturale, giuridica e politica della sua proposta. La firmano con lui Riccardo Lombardi, leader della sinistra socialista, Piero Calamandrei, ideologo e fondatore del partito d'Azione, c'è Ferruccio Parri, ma ci sono anche i sardi Velio Spano e Renzo Laconi, comunisti, Gesumino Mastino, democristiano di Silanus, il socialista di Castelsardo Michele Giua. La mozione è la sintesi del pragmatismo e della lungimiranza del leader di Armungia. Con un colpo solo il Capitano tenta di ribaltare i ritardi atavici della classe politica sarda, di prevenire l'inverno che sta per calare sulle Regioni a Statuto Speciale e, soprattutto, di allineare la Carta costituzionale sarda a quella della potentissima Sicilia. Il testo dell'atto parlamentare proposto da Lussu è un prodigio legislativo e costituzionale, capace di invertire la via del baratro in cui si sta incuneando, ancor prima di nascere, l'Autonomia Sarda.

La via sicula

Il tentativo di far propria la via siciliana alla Specialità è scandito, però, da un campo minato, politico da una parte e "centralista" dall'altro. Lussu lo sa benissimo: lo Stato "repubblicano", ancor prima della sua nascita, risente della smania accentratrice di Roma. La Sardegna, se non riuscirà ad agganciarsi allo Statuto siciliano, sarà costretta a subire non solo i ritardi della Consulta sarda, ma soprattutto i rigurgiti di uno Stato vorace ed egoista. La mozione è l'estremo tentativo per non perdere lo slancio di credibilità e riconoscenza che Lussu e la Brigata Sassari si erano conquistati a suon di guerra e sangue. L'atto parlamentare è tanto scarno quanto significativo. Il primo presupposto della richiesta è vincolante: «L'istituzione degli Alti Commissari e delle Consulte regionali poneva la Sicilia e la Sardegna, per le condizioni particolari alle due grandi Isole, in una identica situazione politica». A questo si aggiungeva: «L'articolo 108 della Costituzione in esame attribuisce alla Sicilia e alla Sardegna forme e condizioni particolari di autonomia». L'antefatto richiamato nella mozione è un appello alla coscienza e alla riconoscenza: «La Consulta Nazionale e il Governo dei Comitati di liberazione nazionale avevano, già nel 1946, deliberato di estendere in via provvisoria alla Sardegna lo Statuto autonomo della Sicilia, provvedimento del quale la Consulta regionale sarda non credette opportuno avvalersi, preferendo elaborare con esame approfondito il suo particolare progetto di Statuto». I ritardi che si stavano accumulando rispetto alla Sicilia erano tali, però, che si rischiava di perdere per sempre lo slancio "autonomista" della storia recente. La mozione di Montecitorio fissa l'iter ancora da compiere: «Lo Statuto per la Sardegna, approvato nelle sedute del 15-29 aprile 1947, dopo sei mesi di lavori ininterrotti, è stato, dalla Consulta regionale sarda, presentato al Governo». Scrive Lussu: «Se seguitasse il regolare andamento della discussione sulla Costituzione, l'Assemblea Costituente non potrebbe esaminare lo Statuto sardo neppure in settembre, per cui le elezioni regionali in Sardegna non potrebbero aver luogo entro l'anno, mettendo così l'Isola in uno stato ingiusto di disparità rispetto alla Sicilia». Non solo, dunque, si perdeva l'aggancio al "treno" dei poteri statutari sanciti, seppur provvisoriamente, per la Sicilia, ma si rischiava di far venir meno anche l'elezione del primo parlamento sardo. Il dispositivo deliberativo all'esame di Montecitorio è una proposta pragmatica, per salvare il salvabile. L'Assemblea Costituente – è scritto - delibera: «per lo Statuto sardo sia adottata la stessa procedura usata per lo Statuto siciliano; e pertanto l'Assemblea Costituente autorizza il Governo all'approvazione immediata dello Statuto presentato dalla Consulta sarda, sì da rendere possibile in Sardegna la convocazione dei comizi elettorali entro l'anno, riservandosi, come per lo Statuto siciliano, per la fine dei lavori dell'Assemblea Costituente, il diritto di un maggiore esame per coordinare lo Statuto con la nuova Costituzione della Repubblica». Quando Lussu prende la parola per illustrare la mozione a Montecitorio manca solo Alcide De Gasperi, il Presidente del Consiglio. Per il resto ci sono tutti, da Togliatti a Pella, il potente ministro delle finanze di quel primo governo repubblicano. L'arringa dell'avvocato Lussu è brillante, persuasiva, ammiccante e persino ironica.

Sicilia & Sardegna

L'esordio è tutto per i colleghi dell'Isola sorella. Dice Lussu: «Io vorrei subito rassicurare i miei colleghi siciliani. Essi non credano che noi sardi presumiamo di competere con la grande Isola sorella che noi riconosciamo maggiore per ricchezza di vita, per popolazione più numerosa e soprattutto più industrie, e per tradizioni perenni di civiltà. Da noi, nel passato, non re o baroni insigni, ma solo proconsoli venali o incapaci. Nella nostra povera storia dell'Isola, di illustre non abbiamo che una donna, che non era neppure re ma giudice, come i re del popolo d'Israele, contro la quale, come capita a tutte le donne, anche alle migliori, in questo momento si cominciano ad appuntare dei mormorii critici. Ed abbiamo la sofferenza millenaria del nostro piccolo popolo che non è ancora civilmente unito, ma che per l'intensità delle sue sofferenze noi vediamo capace di esprimere aspirazioni moderne di giustizia umana».

Spariti i briganti

Certo, qualche differenza, e anche sostanziale, Lussu la individua, ma lo fa con l'ironia che gli è propria anche quando il tema è delicato: «Io riconosco che a noi mancano molti degli elementi che creano così avventurosa e drammatica la vita in Sicilia. A noi mancano latifondi, i feudatari, i baroni, i gabelloti e la mafia. Non abbiamo più neppure i briganti. È doloroso ma è così! La nostra Isola ne ha perduto il primato, che è passato incontrastato alla Sicilia, il bandito Giuliano tiene alta la maglia gialla». In aula si ride, scrivono gli stenografi. Con una scalata tecnico-giuridica il capitano punta a smorzare l'oggetto del contendere, per distogliere le attenzioni dei «nemici» silenziosi e palesi dell'Autonomia Sarda. Ben sapendo che così non era, Lussu afferma: «Il problema è tecnico, perché, in sostanza, non si tratta d'altro che di trovare il modo di estendere alla Sardegna le possibilità di rendere vitale ed efficiente il suo statuto autonomo così come è avvenuto per la Sicilia. La Sicilia ha avuto lo statuto; ha avuto le elezioni, il suo Parlamento, il suo Governo regionale. Perché la Sardegna non l'ha? Come si può fare in modo che la Sardegna l'abbia? Ecco il problema». È arguto come pochi, Emilio Lussu. Usa la sponda con l'abilità di un provetto giocatore di biliardo, utilizzando persino quella del suo più atavico avversario, Francesco Saverio Vincenzo de Paola Nitti, il primo Presidente del Consiglio del post unità d'Italia. E a lui che si rivolge per tentare di depotenziare, almeno a parole, la portata della sua proposta: «Quando un uomo politico dell'autorità dell'onorevole Nitti, le cui simpatie o antipatie per la Regione sono arcinote, esaminando questa mozione, l'ha considerata giusta e ragionevole, io credo che si prepari un porto sereno e ospitale per questo statuto autonomo sardo che arriva su una nave ritardataria ma senza strumenti di guerra a prua o a poppa o nascosti nella stiva».

Usa argomenti forti il Cavaliere dei Rossomori: «Sia ben chiaro che non intendiamo in alcuna forma presentarci come antagonisti o competitori della Sicilia. Ma sta di fatto questo: che nel 1943, appena liberate le prime parti del nostro territorio nazionale fu creato in Sicilia ed in Sardegna l'istituto dell'Alto Commissariato, e immediatamente dopo l'istituto della Consulta regionale. Questi due istituti furono istituiti per le due isole, perché isole». Ecco, la chiave che per Lussu rendeva indissolubile il legame della “specialità” per le due isole: “perché Isole”.

Sardegna in ritardo

La perorazione si fa stringente: «A questo punto è doveroso che io riconosca che sulla via dell'autonomia i tempi sono stati accelerati in Sicilia e ritardati in Sardegna. La Consulta regionale siciliana, sotto la pressione degli avvenimenti, accelerò i suoi lavori di elaborazione dello statuto autonomo. In 15 giorni di sedute continue preparò il suo statuto che finì per essere approvato il 23 dicembre 1945 e presentato, immediatamente dopo, al Governo». È qui che Lussu incalza e rievoca il primo tentativo di non dividere le sorti autonomistiche delle due Isole: «Fu a questo momento che presso la Giunta e il Governo intervennero i rappresentanti sardi alla Consulta nazionale per ottenere, dato che i lavori in Sardegna procedevano con un certo rilento, che si poteva prevedere sarebbe continuato per parecchio tempo, che provvisoriamente lo Statuto autonomo per la Sicilia fosse passato anche alla Sardegna in attesa che la Consulta regionale elaborasse, con tutta tranquillità il suo Statuto». Il passaggio è nevralgico. La proposta di Lussu per concatenare le sorti autonomistiche conquista i favori dei lavori costituenti dello Statuto siciliano: «La giunta delle tre Commissioni, riunita alla Consulta nazionale, aderì alla nostra richiesta, come risulta dal bollettino del maggio 1946 del Ministero della Costituente, e apportò una aggiunta all'articolo 12». E, in effetti, il verbale di allora è l’orizzonte di una pietra miliare che si stava per scolpire: «È stato aggiunto il seguente articolo 42-bis: Le norme dell'articolo 1 e dei Titoli 1, 2, 3, 4, 5, 6 sono estesi alla Sardegna». È la svolta, o meglio, sarebbe stata la svolta.

Il sì di De Gasperi

Il Presidente del Consiglio di allora, Alcide De Gasperi, geneticamente e anagraficamente democristiano, colto da un rimasuglio di riconoscenza verso la Sardegna aderì alla richiesta: «Mi impegno a far passare alla Sardegna provvisoriamente, lo statuto siciliano in attesa che la Consulta regionale sarda elabori il proprio statuto. Beninteso riservandone il coordinamento alla futura Assemblea Costituente». Lussu rievoca, nel silenzio di un’aula di Montecitorio che lo ascolta con proverbiale rispetto, il “misfatto” che fece saltare per aria il suo piano di “aggancio” all’Isola maggiore: «Senonché avvenne un fatto imprevisto: la Consulta regionale sarda ritenne di non accettare questa offerta. Un pò per un certo spirito romantico contro l'autonomia per decreto reale, un po' per spirito di corpo, diciamo così, per cui intendeva il suo statuto elaborarlo da sé e non averlo, sia pure in forma provvisoria, dalla Sicilia, e poi, soprattutto, per avere il tempo di elaborare con tutta calma il suo statuto particolare. Ecco perché la Sicilia ha avuto lo statuto e la Sardegna non l'ha avuto ancora». La domanda del leader sardista si fa retorica e pungente: «La Consulta regionale sarda ha agito bene o ha agito male?» - si domanda Lussu. La risposta è sempre la sua: «L'uno e l'altro insieme, io credo. Certo, se i consultori regionali sardi fossero appartenuti all'alta scuola politica che ispira l'azione dell'onorevole De Gasperi essi avrebbero accettato. L'onorevole De Gasperi, pure così giovane, è ancora caposcuola a tutti e ha insegnato come si prende ogni occasione e di ogni occasione si profitta rinunciando ad ogni forma di romanticismo. La politica pare sia ormai l'arte di prendere tutto quello che è possibile prendere e che è possibile avere».

L’era glaciale

In Sardegna non diedero retta nè a Lussu, tantomeno alla lezione di De Gasperi. La Consulta regionale sarda rifiutò l’offerta. La storia da quel momento, però, fu tutta un’altra. Lussu in extremis tentò di convincere la Costituente ad autorizzare il governo De Gasperi, che pure era favorevole, all’adozione dello Statuto sardo senza ulteriori perdite di tempo. Il “freddo” statale, come lo definisce Lussu, stava, però, per trasformarsi in un’era glaciale. Il testo approvato dalla Consulta sarda il governo se lo tiene ben stretto. Non solo non lo trasmette all'Assemblea Costituente, ma lo Statuto sardo, «giace al Viminale come un corpo morto». Lussu esorta l’aula: «Scopo di questa mozione è, con la vostra collaborazione, onorevoli colleghi e con la collaborazione del Governo, ridare calore e vita a questo freddo statuto sardo, secondo giustizia». La procedura tracciata dalla mozione è esemplare: «L'Assemblea Costituente autorizza, oggi stesso, il Governo ad approvare immediatamente lo statuto sardo con decreto legge presidenziale».

Il punto di non ritorno

Lussu capisce che si è giunti ad un punto di non ritorno. O passa la sua mozione o per la Sardegna si chiuderanno sempre più porte e sorgeranno sempre più ostacoli. La carta finale di quell’accorato appello alla Costituente è insieme memoria e coscienza, richiamo al rispetto di quei tanti sardi che hanno ceduto la vita su quelle trincee di guerra lontane dall’Isola. Le sue parole, in quell’aula divenuta tetra e buia, riecheggiano come un richiamo morale: «Io ricordo, e sento una certa riluttanza a dirlo qui pubblicamente che, quando lo Stato era in sfacelo e molti cittadini, come secondo natura, del resto, nell'infuriare delle onde, si cercavano una zattera di salvezza per proprio conto, e quando il Ministro della guerra faceva degli sforzi inauditi per tentare di riorganizzare un esercito od una parvenza di esercito, io ricordo che nel fuggi fuggi generale noi, rappresentanti consapevoli del popolo sardo, in Sardegna ci siamo presentati ad esso ed abbiamo detto: Coraggio! Ancora un piccolo sforzo, nell'interesse generale, e l'autonomia l'abbiamo in modo certo! I sardi, contadini, pastori, lavoratori, tutti accorsero ai distretti per tentare, ancora una volta, di partecipare alla ricostruzione dello Stato in sfacelo ed in rinascita». Riaffiora nella memoria di Lussu l’impegno dello Stato: «Io ricordo che l'onorevole Bonomi - Presidente del Consiglio - in quel momento colpito da questo spettacolo di solidarietà nazionale, mi disse più volte: l'autonomia certamente bisogna concederla al più presto».

Ridateci la vita

L’appello finale è carico di aspettative, proiettato verso il futuro: «Dateci la possibilità di riprendere contatto con la nostra stessa vita. Noi sentiamo che dobbiamo ricominciare la nostra vita e avere fiducia in noi stessi: lavorare di più - io lo riconosco, lo riconosciamo tutti noi rappresentanti dell'Isola – studiare di più, e conoscere i nostri problemi e quelli degli altri; studiare di più in tutto; sacrificare di più l'individuale al collettivo, e sperimentare di più; entrare più profondamente in questa vita di civiltà moderna d'Italia, d'Europa e del mondo; spezzare questo incantesimo tenebroso di isolamento, che è diventato psicologico dopo essere stato prima naturale e dobbiamo noi universalizzarci». Lussu finisce di parlare tra gli applausi della Costituente. Applaudono l’uomo, l’arguzia, l’ironia e la lungimiranza. Dietro le quinte, però, si costruisce l’arma più letale: l’ignavia, il non decidere, il rinvio perenne. In pochi vogliono le elezioni in Sardegna, non le vuole prima tra tutte la Democrazia Cristiana sarda. Il più illustre dei democristiani dell’Isola è Salvatore Mannironi, da Nuoro. È lui che argomenta: «Ho detto che voto contro la mozione Lussu perché porta ad una soluzione di provvisorietà».

Irrompe Togliatti

Le artiglierie contrarie sono pronte a colpire. Nel dibattito, però, irrompe Palmiro Togliatti, il capo dei comunisti. È nuovamente silenzio nell’aula di Montecitorio: «Noi abbiano in Italia due grandi Regioni - lascio da parte le piccole zone mistilingui di frontiera - alle quali tutti siamo stati d'accordo nel garantire un particolare statuto autonomo: la Sicilia e la Sardegna. Alla Sicilia tutto questo è stato dato; alla Sardegna no. Errore? Dimenticanza? Necessità di rinvio di fronte ad altri problemi più urgenti? Non discuto, e non elevo nessuna accusa; però constato che questa diversità di trattamento tra la Sicilia e la Sardegna deve oggi essere eliminata; e deve essere eliminata presto». La constatazione di Togliatti diventa politica: «Rimane il fatto che al popolo sardo devono essere dati tutti i vantaggi politici, e sollecitamente, che sono stati dati al popolo siciliano. Il popolo sardo è altrettanto maturo quanto il popolo siciliano per eleggere rapidamente, democraticamente e liberamente il proprio Parlamento regionale e crearsi così il proprio Governo regionale dopo una libera consultazione democratica. Se questo non viene fatto, vuol dire che vi sono altre ragioni che ve lo impediscono». Niente da fare. Le sabbie mobili sono destinate a prevalere. Costantino Mortati, democristiano degli albori, alla fine del dibattito, si fa carico dell’ordine di partito: trasformare il dispositivo perentorio e ordinatorio di Lussu, in un modesto e inutile «invito alla Commissione competente ad esaminare nel più breve termine lo schema di Statuto presentato dall’Alto Commissario e dalla Consulta regionale sarda». È notte fonda nel palazzo del Parlamento. Annotano gli stenografi della Costituente: l’invito a rinviare «dopo prova e controprova è approvato». Lo Statuto Sardo sarà varato sette mesi più tardi, in piena «era glaciale», quando lo Stato e i suoi apparati avevano già deciso di mortificare le nuove regioni speciali. Lussu è caustico: «Queste nostre autonomie possono rientrare nella grande famiglia del federalismo, così come il gatto rientra nella stessa famiglia del leone». Il calvario dell’Autonomia Sarda, però, non è finito.

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