Nell’estate appena passata chi ha fatto il bagno nel mare della Sardegna ha trovato l’acqua calda quasi a livello dei Caraibi: certamente piacevole per chi si immerge nel mare ma un brutto segno per il clima. L’aumento di calore provoca danni, mette a rischio l’ambiente, genera siccità e fenomeni meteo sempre più violenti mentre il mare si “mangia” le spiagge. Qual è lo stato di salute del nostro mare e come proteggerci dai disastri climatici? Lo abbiamo chiesto ad Alessio Satta, presidente di Medsea, la Fondazione che si occupa della tutela e della gestione sostenibile delle risorse marine e costiere del Mediterraneo con una serie di iniziative concrete in Sardegna.

L’estate scorsa il termometro ha segnato rosso, che cosa è successo nel nostro mare?

«Diciamo subito che nel mare della Sardegna ci sono state punte di 30 gradi e ne abbiamo misurati addirittura 24 a una profondità di venti metri. Dobbiamo parlare di ondate di calore marino, un fenomeno legato al cambiamento climatico. Il mare si riscalda perché sale la temperatura dell’aria».

E l’aumento di calore provoca danni. Quali sono i principali?

«Ci sono due tipi di problemi. Il primo è legato alla vita marina. Si pensi all’impatto su tutte le attività dell’acquacoltura nel golfo di Oristano e di Olbia. Tutti i responsabili delle aziende della mitilicoltura hanno avuto paura per i loro allevamenti».

Cioè l’allevamento delle cozze era in pericolo per il caldo?

«Se mi passa il termine, in parole povere, c’era il rischio che questi allevamenti ‘friggessero’ e in quel caso ci sarebbero stati danni per svariati milioni di euro. Fortunatamente è successo solo in parte e non è stata una catastrofe».

Speriamo che il fenomeno non si manifesti anche l’estate prossima.

«Vorrei essere ottimista ma è improbabile che la temperatura tenda ad abbassarsi».

Lei ha parlato di un secondo problema, qual è?

«Sono arrivate dal mar Rosso le specie aliene che trovano da noi le condizioni tropicali per la riproduzione; arrivano attraverso i battelli di pesca o i cargo. Ora, c’è un caso che sta affliggendo la costa del Libano: il terribile pesce leone. Non è presente da noi ma, se consideriamo che il Mediterraneo è un mare chiuso, potrebbe arrivare».

Perché sono sempre più frequenti le bombe d’acqua?

«Con la temperatura elevata l’energia rimane immagazzinata in mare e nello scontrarsi con le prime masse di aria fredda dal Nord Europa scaturiscono fenomeni estremi».

Ci capita sempre più spesso di constatare che il mare mangia la terra. Come proteggere le nostre spiagge?

«La soluzione più efficace è quella che le Nazioni unite definiscono fondata sulla natura. Sistemi di dune e praterie di posidonia sono i principali alleati per difenderci».

Una protezione che state attuando in Sardegna?

«Sì, stiamo operando nel golfo di Oristano, nello stagno di Marceddì, e a Villasimius dove recuperiamo la posidonia in degrado. È importante perché la posidonia è un polmone con la capacità di stoccare la CO2 e di creare una barriera contro le mareggiate. Le parole chiave sono spazio e natura; un peso importante ce l’hanno le zone umide».

Cagliari è avvantaggiata con gli stagni di Molentargius e Santa Gilla e col sistema delle saline?

«Certo ma si tratta di utilizzarli meglio, fare in modo che ci siano una serie di canali drenanti che permettano di scaricare le acque in eccesso su queste zone».

Cosa fare in città contro il caldo tropicale?

«La riduzione della superficie impermeabile, parlo di cemento e asfalto, migliora la capacità di drenaggio ma la priorità resta quella degli alberi. Cosa aspettiamo per realizzare un piano di rimboschimento della città? Lo sa che a Cagliari, passando da zone alberate, come viale Trieste e viale Merello, ad altri quartieri meno verdi c’è la differenza di temperatura di uno o due gradi in meno?».

Veniamo alla questione della plastica: da dove arriva nel nostro mare?

«Abbiamo constatato con piacere che il principale fiume, il Tirso, non scarica grandi quantità di plastica a differenza di quello che accade a Roma col Tevere. Da noi, la plastica arriva sulle coste nord occidentali dell’isola dal Golfo del Leone, quindi da Francia e Baleari, e nel sud dell’isola dal Nord Africa».

Lei ha partecipato in Egitto alla Conferenza Onu sul clima. L’agenda ambientale non può essere separata da quella sociale?

«I Paesi occidentali hanno preso atto che siamo noi a produrre i danni ambientali i quali si riversano sempre sui Paesi in via di sviluppo. Ora si punta a creare un Fondo con alcuni miliardi di euro per dare sostegno ai Paesi danneggiati. Purtroppo, però, non ci sono stati passi in avanti sull’abbandono delle fonti inquinanti».

Alfredo Franchini

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