«L’avvocato ha presentato istanza di scarcerazione per Emanuele Ragnedda, già venerdì scorso o sabato. Io d’accordo? Certo che no, chiunque non sarebbe d’accordo». 

Quando parla del figlio Nicolina Giagheddu usa nome e cognome, come a  prendere le distanze. Aveva già detto che il responsabile dell’omicidio di Cinzia Pinna (suo figlio, appunto) «merita l’inferno». Lei, travolta dal dolore, la sua sentenza l’ha già emessa. Ed è critica anche nei confronti di un passaggio procedurale obbligato per qualunque difensore dotato di competenze di diritto. Ma non solo. 

Video di Andrea Busia

La madre di Ragnedda questo pomeriggio, nel porticciolo di Cannigione, mentre gli inquirenti passavano al setaccio lo yacht di famiglia, il Nikitai,  a caccia di elementi utili alle indagini, ha parlato  anche del tentativo di suicidio messo in atto dal figlio (ora dimesso dall’ospedale) dentro una cella del carcere di Bancali:   «Quando uno non ci riesce vuol dire che non ci ha provato bene. Chi si vuole suicidare, si suicida. Come sta? Non lo so, non ci parlo. Non parlo con lui, non parlo con l’avvocato di mio figlio e non parlo con il padre di mio figlio». 

Lo yatch della famiglia Ragnedda - sotto sequestro - ormeggiato a Cannigione sul Pontile dei Fiori 

Nicolina Giagheddu è caustica anche rispetto alla dinamica dell’omicidio e a quanto successo dopo: nella confessione il quarantunenne ha raccontato di essersi sentito minacciato prima di esplodere tre colpi di pistola contro la trentatreenne di Castelsardo:  «Non credo alla difesa da una aggressione. Non ci credo», ha detto la donna, «saranno gli inquirenti a dire che cosa è successo. Ma io personalmente non ci credo. Mio figlio avrebbe dovuto assumersi subito le sue responsabilità. Non doveva andarsene in giro, avrebbe dovuto chiamare subito il 112. Se fosse successo a me avrei chiamato subito il 112. Non credo al panico, non credo a queste cose».

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