C’erano tutti. Dai primordi del “Belzebù di Stato”, alias Giulio Andreotti, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministri, al “Migliore”, soprannome del capo dei comunisti italiani Palmiro Togliatti. Svettano Aldo Moro, giovane scudocrociato ancora senza ruolo di governo, e il numero uno dei democristiani, quell’Alcide De Gasperi che, agli albori della Repubblica, del Governo costituente, ne era il capo. C’era il Ministro dell’Agricoltura, quell’Antonio Segni che anni dopo avrebbe conquistato il colle più alto di Roma, divenendo il primo Capo dello Stato geneticamente sardo, e soprattutto, nell’aula dell’Assemblea costituente, imperversava con l’autorevolezza della storia, Emilio Lussu, il Capitano. È gennaio inoltrato, l’anno è il 1948. L’ordine del giorno della seduta pomeridiana è senza appello: «Discussione del disegno di legge costituzionale, Statuto speciale per la Sardegna». Il passaggio agli articoli, preludio al sigillo finale, è indolore per i primi due: «la Sardegna con le sue isole è costituita in Regione Autonoma entro l’unità politica della Repubblica italiana, una e indivisibile…» e «Cagliari capoluogo». Il calvario per la via crucis dell’Autonomia sarda non si farà attendere.

Plotone antiautonomistico

Era stato Alcide De Gasperi, capo del governo, con il tatto della sacrestia e il pugno fermo del centralismo democristiano, ancor prima di iniziare la discussione sul merito, a ristabilire i confini tra l’agognata impostazione federalista dello Stato e le ragioni di un’autonomia mal sopportata dai Palazzi di Roma. La premessa del suo incedere è racchiusa in una frase sibillina pronunciata come preambolo dei fucili puntati del governo contro la già flebile cessione di poteri e competenze all’ancora non nata Regione Autonoma della Sardegna: «Dico onestamente – esordisce De Gasperi - che avrei desiderato una più intensa collaborazione tra il governo e la Commissione. E questo non soltanto per taluni problemi, come quello dell’autonomia finanziaria, ma anche per le questioni più generali».

Fuoco alle polveri

Come dire, fuoco alle polveri. Quando si inizia a discutere congiuntamente degli articoli tre e quattro, quelli delle competenze e dei poteri, l’esercito di Ministri è schierato, come se ognuno di loro volesse preservare il proprio scettro in terra sarda. Di poteri autonomistici ne erano rimasti pochi, e la maggior parte si doveva muovere nell’alveo dello Stato, chiamato al ruolo di “corniciaio”. Lo ribadiscono più volte: il parlamento è destinato a tracciare principi, confini e limiti, per lasciare poi alle regioni, a maggior ragione a quelle speciali, il compito di disegnare e colorare la propria autonomia. In teoria un margine ampio. Peccato, però, che lo Stato non si sia limitato a varare “Leggi cornice”, ma abbia deciso, per indolente e ingordo esercizio del potere, di colorare anche i minimi dettagli del quadro normativo. In quella discussione-contesa sulle materie e i poteri da trasferire alla Regione intervengono quasi tutti i ministri. Segni, Antonio, il futuro Presidente della Repubblica, allora Ministro dell’Agricoltura e delle Foreste, è l’unico del Governo De Gasperi che difende una competenza sarda: il trasferimento della caccia alla Regione. Il fuoco incrociato è segnato dagli interventi di Nicola Einaudi, Ministro del Bilancio e prossimo primo Capo dello Stato, Amintore Fanfani, Ministro del Lavoro, Mario Scelba, Ministro dell’Interno. Giulio Andreotti, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, arriva persino a scagliarsi contro la competenza esclusiva sui “pubblici spettacoli”, prevista inizialmente in capo alla Regione, perché, secondo il Belzebù d’Italia, avrebbe violato l’unitarietà culturale dello Stato. È sempre il plotone ministeriale a far capitolare la competenza su «antichità e belle arti» prevista nella stesura primordiale.

Silenzio energetico

Nel dibattito costituente finale, però, non c’è traccia, nemmeno una parola o un flebile sibilo di Governo, sul contenuto della lettera «e» dell’articolo quattro del futuro statuto della Sardegna: «la Regione ha potestà legislativa su produzione e distribuzione dell’energia elettrica». Non un recinto, ma una prateria, da intendersi, come ha richiamato più volte la giurisprudenza della Corte costituzionale, nel significato più ampio del «governo dell’energia». Nessuno proferisce verbo. Tutti d’accordo, la Sardegna può governare, nell’ambito dei principi dello Stato, il tema dell’energia. Le tesi sul silenzio su un tema cardine come l’energia sono frutto di posizioni opposte, mai esplicitamente espresse.

Versione double-face

Da una parte chi riteneva che l’essere “Isola”, ultraperiferica, comportasse di per sé l’esigenza di governare “in casa”, oggi si direbbe “in house”, la produzione e la distribuzione dell’energia, dall’altra chi voleva “scaricare” totalmente l’onere di “elettrificare” la Sardegna sulla Regione. Una tesi quest’ultima avvalorata da una decisione “statutariamente” diversa per la Sicilia, che seppur Isola, veniva di fatto tenuta agganciata al sistema statale per via dei “Piloni dello Stretto” che proprio in quegli anni si stavano realizzando per collegare la costa sicula con quella calabra, connettendo quella regione insulare al resto d’Italia. Fatto sta che la Sardegna, per magnanima concessione o per subdolo scaricabarile, si è ritrovata con quella che più costituzionalisti hanno definito la più ampia “autonomia-indipendenza” energetica mai riconosciuta tra le regioni ordinarie e quelle speciali. Un limite, quello insulare, che appare controbilanciato da poteri ampi che avrebbero consentito un governo “autonomo” di uno dei fattori chiave dell’economia e dello sviluppo sociale di una comunità regionale: l’energia. Un potere che appariva “costituzionalmente” smisurato anche perché tra i poteri e le competenze che lo Statuto aveva assegnato alla Sardegna vi erano anche quelli relativi all’esercizio dei diritti demaniali della Regione sulle acque pubbliche e l’esercizio dei diritti demaniali e patrimoniali della Regione relativi alle miniere, cave, saline (competenza primaria) e la gestione industriale delle miniere, cave e saline (competenza concorrente). Norme sui beni appartenenti al demanio idrico che riconoscevano di fatto alla Regione la gestione “esclusiva in materia di acque pubbliche”, che rendeva “primaria” la potestà legislativa per l’utilizzo delle acque a scopo idroelettrico. Un combinato disposto puntuale: disponete della gestione delle acque pubbliche con le quali potete produrvi l’energia elettrica da distribuire sull’intero territorio regionale. A questo si aggiungeva un altro caposaldo: la competenza sarda relativa alle miniere era esplicitamente collegata ai minerali energetici, non solo al carbone ma anche a idrocarburi liquidi e gassosi, comprese le risorse geotermiche.

Norme resistenti

Un quadro costituzionale e statutario ancor oggi in vigore, nonostante le reiterate incursioni dello Stato, tutte protese a imbrigliare, denegare, eliminare poteri della Regione sarda in tema di energia. Un agguato dietro l’altro che la stessa Corte Costituzionale ha più volte scongiurato, a partire da una sentenza, la numero 22 del 1956, con la quale i Giudici dell’Alta Corte avevano bocciato il tentativo del Governo di sottoporre le funzioni amministrative di competenza della Regione in materia di acque pubbliche ed energia elettrica, ad “intesa” col Ministero dei Lavori Pubblici. Un primo tentativo di ingerenza statale respinto con una sentenza costituzionale esemplare. Da quel momento in poi l’assalto all’arma bianca dello Stato verso le competenze “energetiche” della Sardegna è stato, però, costante e invasivo, con leggi statali che non si sono mai limitate a definire “cornici”, ma semmai a rendere le norme sempre più dettagliate, con l’obiettivo evidente di comprimere sempre di più il potere della Regione.

Elettrica Sarda

A dire il vero, l’embrione di una svolta, la Regione cerca di imprimerlo con la nascita dell’Ente Sardo di elettricità. È il sette maggio del 1953. Un soggetto a totale gestione sarda, governato da cinque membri designati dalla Giunta regionale. Una legge attuativa dei poteri in materia di energia che riuscì a resistere persino all’istituzione dell’Eni, nel 1953. La prima battuta d’arresto nel 1962 quando nasce l’Enel, l’Ente nazionale per l'energia elettrica. Un passaggio normativo che segnerà in maniera profonda il sistema energetico italiano, compresa la Sardegna.

Retromarce di Stato

La Corte costituzionale ne da un’interpretazione da riforma economica rilevante, collocandola su un gradino più stringente per lo stesso Statuto. Si arriva alla nazionalizzazione dell’energia. Il sogno dell’indipendenza elettrica della Sardegna si ferma, affidandosi totalmente all’Ente di Stato. Si sciolgono le società regionali e il piano per un governo sardo dell’energia segna drasticamente il passo. Trentasette anni dopo, è il 1999, è il tempo del decreto Bersani: il mercato dell’energia elettrica viene liberalizzato. Niente più gestione diretta dell’energia da parte dello Stato. A settantacinque anni dall’approvazione, nello Statuto sardo, norma sempre di rango costituzionale, però, c’è ancora scritto: «la Regione emana norme legislative sulle seguenti materie: produzione e distribuzione dell’energia elettrica». Per adesso, però, regna il silenzio, con tante complicità e molte omissioni.

(1.continua)

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