In queste ore il Governatore della Regione Basilicata, Vito Bardi, ha evocato un tema che sembra una provocazione: l'autonomia petrolifera. Esso scaturisce dal dibattito che in questi giorni è stato polarizzato da due macro-questioni.

Da una parte il recente rapporto Svimez che ci restituisce uno spaccato drammatico dello stato di salute del Mezzogiorno: recessione economica, con una previsione del Pil addirittura sottozero, dilagante spopolamento, con oltre due milioni di giovani migrati negli ultimi anni, totale mancanza di investimenti pubblici, politiche assistenziali che negli scorsi anni hanno ulteriormente impoverito il Sud. Il tutto all'insegna delle solite, pessime abitudini di una politica mediocre e assistenziale che, tutta intenta ad aiutare i bisognosi, i deboli e gli ultimi, in realtà ha pensato a favorire (e procrastinare al potere) solo se stessa, praticando al Mezzogiorno una lenta, inesorabile eutanasia.

L'altra macro-questione è quella dell'autonomia invocata a gran voce da alcuni governatori delle Regioni del nord, ai sensi dell'articolo 116 della Costituzione. Qui, lo spaccato è ben diverso: Pil in crescita, infrastrutture, materiali e immateriali, e un tessuto economico e sociale non paragonabile a quelli delle Regioni meridionali, oltre a un saldo demografico attivo, grazie anche all'esodo di milioni di giovani emigrati dal Sud. Addirittura, oltra al danno, la beffa: alcuni giungono perfino a immaginare il Mezzogiorno, isole comprese, come luogo ove inviare gli anziani di tutta Italia.

Insomma, una sorta di mega pensionato, mentre i venti e trentenni vanno al Nord. A questo punto, Bardi si chiede: possono convivere queste due Italie? È l'autonomia la chiave di volta di una convivenza possibile? E quale autonomia: si tratta di allocare diversamente le funzioni o è possibile immaginare di allocare direttamente i benefici economici, specie quelli fiscali?

Pensiamo, ad esempio, al tema petrolifero, agli idrocarburi: una questione quasi esclusivamente meridionale che in pochi percepiscono come tale. Sappiamo infatti che la Basilicata contribuisce per oltre l'80% alla produzione terrestre del petrolio italiano e presto (con l'entrata in funzione del giacimento noto come Tempa Rossa), questa percentuale supererà il 90%. Altre Regioni, come la Puglia, la Sicilia e la Sardegna, subiscono gli impattanti processi di raffinazione del greggio.

L'idrocarburo, liquido e gassoso, è però patrimonio dello Stato, non delle comunità regionali. La legge prevede che alla Regione Basilicata ed ai Comuni lucani tocchi solo una quota (esigua) di risorse economiche, come oneri di compensazione ambientale per le estrazioni. Mentre tali benefici economici non vengono estesi a Puglia, Sicilia, Sardegna. Per di più, le comunità regionali interessate dalla filiera petrolifera pagano i prodotti che derivano dagli idrocarburi (gas, benzina, gasolio eccetera) tanto quanto gli altri italiani. E si tratta di un costo molto salato, fatto per la maggior parte da imposte statali.

Queste comunità regionali vengono quindi doppiamente penalizzate: senza benefici compensativi (o quasi) e con una tassazione alle stelle; la stessa che si applica a chi non ospita alcun pozzo di petrolio, né i maleodoranti processi di smaltimento dei reflui o di raffinazione.

Ecco, dunque, il grande inganno: lo Stato è il maggior beneficiario, in termini economici, della filiera petrolifera, con un massiccio prelievo fiscale sulla produzione (solo affievolito con la soppressione della Robin tax), sulla lavorazione e soprattutto sui consumi (con le odiose accise che gli italiani pagano lontano da dove il petrolio si produce); poi vengono le società petrolifere, poi i lucani, poi ancora, ultimi, i sardi, i siciliani, i pugliesi.

Perché nessuno ne parla, mentre si invoca l'autonomia rafforzata delle regioni settentrionali? Vogliamo anche riparlare della cosiddetta "regola del 34%" (coniata nel 2016), che prevede che la spesa pubblica per investimenti (solo statali) al Sud debba essere parametrata all'attuale dato demografico? Perché questo dato non è contemplato nel fervente dibattito sull'autonomia? Com'è possibile parametrare gli investimenti pubblici in base al livello di spopolamento di una macroregione, invece di contrastarlo? Ma, anche qui, una cosa è la retorica, altra è la realtà. Neanche quella regola è stata applicata: oggi siamo al 28%.

Affrontiamo quindi, volentieri, il tema dell'autonomia rafforzata delle Regioni del nord ma riprendiamo anche quello, ormai pressoché abbandonato, dell'autonomia (più invocata che praticata) delle Regioni a statuto speciale. E attenzione: molte insidie si annidano nelle pieghe della fiscalità dello Stato e rischiano di minare, nei fatti, le grandi declamazioni e conquiste autonomistiche. Il diavolo è nei dettagli, e non va in vacanza.

Aldo Berlinguer

(Universitàdi Cagliari)
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