La decisione del giudice di Agrigento sul caso Sea Watch non fa certamente aumentare né la certezza del diritto, né la fiducia nella giustizia. Anzi i cittadini restano sconcertati di fronte ad una decisione che ritiene legittimo il comportamento dell'ardita capitana Carola, che disobbedendo ai divieti, è entrata prima nelle acque territoriali italiane e poi con la forza anche nel porto di Lampedusa, rischiando di affondare una motovedetta della Guardia di Finanza con i cinque finanzieri a bordo, e sbarcando 40 migranti che aveva raccolto nelle acque di ricerca e soccorso libiche.

Osservo solo che a me, come difensore, è capitato spesso di assistere poveri malcapitati che, per una banale discussione con un vigile urbano, sono stati condannati proprio per resistenza a pubblico ufficiale a due o tre anni di reclusione, senza aver posto in pericolo la vita di nessuno. In questa vicenda alla capitana Carola, secondo la legge del mare e quella nazionale, erano stati contestati diversi reati, anzitutto la resistenza a pubblico ufficiale, tutti però ritenuti dal giudice per le indagini preliminari giustificati dall'adempimento del dovere di salvare i naufraghi, per cui l'arresto in flagranza non è stato convalidato e nessuna misura cautelare è stata applicata. Naturalmente è prevedibile che il Pubblico ministero impugnerà le decisioni del giudice e non è escluso un loro ribaltamento.

È chiaro che il soccorso in mare è un dovere morale prima ancora che giuridico ed è imposto da diversi trattati internazionali, ratificati dall'Italia.

In particolare, è vietato il respingimento verso Paesi in cui i diritti fondamentali non sono assicurati (ad esempio Tripoli) e si prevede che gli sbarchi dei naufraghi soccorsi in mare debbano avvenire nel "porto sicuro" più vicino al luogo di soccorso (nel nostro caso, erano Tunisi o Malta) e non certo quello scelto a piacimento del soccorritore. Inoltre, le stesse Convenzioni prevedono che, se uno Stato non è in condizione di accogliere le persone soccorse, gli altri paesi cooperino per trovare una soluzione, cosa che gli altri Paesi europei si guardano bene dal fare.

Il giudice, per ritenere giustificata la condotta della capitana Carola, ha applicato l'art. 10-ter del testo unico sull'immigrazione, che prescrive di condurre i migranti negli appositi punti di crisi (cosiddetti hotspots). Ma la norma è inconferente nel caso concreto perché riguarda l'identificazione dei cittadini stranieri rintracciati in prossimità della frontiera nazionale o giunti, legittimamente, sul territorio nazionale a seguito di operazioni di salvataggio in mare, mentre nel nostro caso si tratta di persone soccorse in acque internazionali e trasportate in Italia contro il divieto di ingresso.

Perciò in questa vicenda non è in discussione il diritto-dovere di soccorrere chi rischia la vita in mare, perché nessuno dei migranti si trovava in condizioni di pericolo per la vita o per la salute, anzi ricevevano a bordo regolare assistenza e qualche giorno prima una decina di essi che necessitavano cure mediche erano già stati sbarcati a terra. Ciò su cui si discute è la scelta del porto di approdo e quello di Lampedusa era chiuso, come consente la nostra legge. Il nostro Paese ha quindi agito secondo il diritto nazionale e internazionale. D'altra parte, la vicenda era stata portata alla Corte europea dei diritti dell'uomo, che aveva sentenziato che l'Italia ha l'obbligo di prestare assistenza ai migranti, ma non ha il dovere di accogliere né loro, né la nave.

È difficile perciò considerare legittima la condotta della capitana e il provvedimento del giudice di Agrigento sembra, più che una decisione giudiziaria, una scelta politica contraria alla linea dei porti chiusi. Quello che è certo è che nessuno dei paesi europei si è fatto avanti per garantire ospitalità ai migranti. Anzi, ci hanno pure fatto la lezioncina, accusandoci di scarsa accoglienza. E allora, in un'Europa in cui in tanti predicano bene ma razzolano male, credo che comunque le leggi del nostro Paese debbano essere rispettate da tutti, anche da chi agisce per salvare vite umane.

Leonardo Filippi

(Università di Cagliari)
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