Tanti di noi hanno provato questo dolore e questa angoscia sulla loro pelle: vedere i propri genitori - quelle stesse persone che tante volte ci hanno fatto da guida nella vita – “perdersi” inesorabilmente a causa di malattia neurodegenerativa. Si tratta di un’esperienza sempre più frequente a mano a mano che la vita media si sta allungando, ma ancora troppo spesso indicibile. Indicibile perché chi ne è vittima in prima persona perde la capacità di parlarne e perché chi sta accanto al malato perde il contatto con la realtà, si ritrova in un limbo in cui la malattia è l’unica centralità.

La giornalista Francesca Magni ha trovato forse il coraggio, forse la forza, sicuramente la sofferta consapevolezza di raccontare nel libro “Non so la notte” (Bompiani, 2022, pp. 240, anche e-book) le sue giornate e le sue nottate accanto al padre, malato di Alzheimer. Giornate e nottate cominciate all’improvviso, con una telefonata notturna e una corsa nel buio prima di ritrovarsi chiusa tra le pareti di casa per prendersi cura del proprio genitore, un tempo medico autorevole e uomo pieno di vita, poi sempre più distante mentre la malattia consumava la sua consapevolezza. Fuori, intanto, la pandemia sospendeva apparentemente lo scorrere del tempo che nella casa di Francesca Magni veniva invece scandito dai ritmi dell’accudimento. Il padre tornava bambino e bisognoso di nuove cure e attenzioni, mentre l’autrice si trovava a fare i conti con il proprio smarrimento e con la necessità, troppo spesso sottovalutata, di chiedere aiuto nella quotidianità ad altre donne venute da lontano. Intanto cresceva l’ansia di smarrire definitivamente quell’intima condivisione che ci lega a chi ci è genitore.

Difficile quindi non definire intenso e struggente un libro come “Non so la notte”, un racconto che coinvolge per la sua intima spontaneità. Una spontaneità che ritroviamo nelle parole di Francesca Magni quando le chiediamo perché ha deciso di mettere nero su bianco la sua esperienza accanto all’Alzheimer:

“Il libro è nato praticamente da solo. Nei giorni in cui accudivo mio padre le mie giornate erano stravolte. Si era all’inizio del lockdown e gestire tutto, lavoro compreso, era difficilissimo. Mi ritrovavo a scrivere nei momenti, non sempre frequenti, in cui riuscivo…magari tra una badante e l’altra che si occupavano di accudire mio padre quando non lo facevo io. Il libro è nato così, da solo, mentre ero in una sorta di trance vigile”.

La copertina del libro
La copertina del libro
La copertina del libro

Come è nata l’idea di pubblicare quello che era in origine un racconto intimo, personale?

“Ho fatto leggere quello che avevo scritto a mio marito, il mio primo lettore, e subito mi ha spinta a non tenere per me ciò che avevo messo nero su bianco. Avevo un contatto con una agente letteraria che si era fatta viva dopo aver letto il mio libro dedicato alla dislessia intitolato Il bambino che disegnava parole. Mi aveva detto di chiamarla se avessi scritto altro. Le ho mandato il manoscritto e si è innamorata del mio testo. In aggiunta dietro alla scelta di pubblicare c’è anche una ragione più personale”.

Quale?

“Credo molto nel valore della testimonianza quando si vivono situazioni difficili come è successo a me. Per me uno dei valori dello scrivere è quello di dire agli altri che non sono soli, non sono gli unici ad aver vissuto quell’esperienza drammatica di cui fanno magari fatica a parlare. E un modo per far sentire le persone meno sole e per sentirci a nostra volta meno isolati”.

La malattia genera inesorabilmente e in molti modi solitudine…

“È così. Non a caso quando qualcuno che ha avuto una esperienza simile alla mia legge il libro e poi mi contatta su Instagram, nascono delle relazioni a distanza di una intensità enorme. Questo ci dà il senso del bisogno che molti hanno di non rimanere soli, di non sentirsi abbandonati. Non è facile stare vicino a un malato, ma anche chi si prende cura della malattia spesso si sente rifiutato, isolato, abbandonato”.

Perché a suo parere si ha tanta paura della malattia e della sofferenza?

“Mi sono interrogata su questa tematica, ma non ho trovato una risposta definitiva. Forse temiamo la sofferenza altrui perché ci interroga nel profondo, ci costringe a domandarci se stiamo facendo abbastanza, se abbiamo fatto tutto quello che potevamo per rendere vitale la relazione con la persona che ci sta di fronte. Quasi sempre la risposta è negativa. Non abbiamo mai fatto tutto quello che potevamo. E poi la malattia ci mette a confronto con la nostra caducità e con la caducità delle persone che ci stanno accanto e a cui vogliamo bene. Sono temi che la nostra società odierna rifugge. Una cosa che mi ha colpito è come per questo libro sia stata quasi sempre contattata da giornali e riviste di ambito cattolico. Ecco, io non sono credente e il mio libro non guarda alla dimensione religiosa, però evidentemente la sofferenza è più facilmente affrontata in determinati ambiti. Una buona parte della nostra società la rifugge, inutile negarlo”.

Ma in una storia come quella raccontata nel tuo libro c’è spazio per emozioni come la gioia e la speranza?

“Per la gioia assolutamente sì, anche perché l’Alzheimer ti trascina in una realtà talmente folle e surreale che a volte non si può non ridere. La speranza è invece qualcosa di più distante dalla mia esperienza. Forse è aggrappata alla possibilità che in futuro si trovi una cura per una malattia di cui si sa ancora pochissimo e su cui si fa pochissima ricerca”.

Rileggendo quello che lei ha scritto, a distanza di tempo, quali emozioni predominano?

“Non so…non so risponderle. È una domanda che ancora mi paralizza”.

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