Siamo tutti un po’ vittime dell’itanglese
Il linguista Maurizio Trifone ci fa da guida nell’italiano infarcito di anglicismiPer restare aggiornato entra nel nostro canale Whatsapp
Un po’ per provincialismo, un po’ per pigrizia mentale, un po’ per sentici trendy e cool sembriamo un po’ tutti incapaci di parlare senza infilare anglicismi o presunti tali ogni due o tre parole. Il pranzo diventa così lunch oppure brunch, la sera si va in un ristorante all you can eat a parlare del prossimo weekend all inclusive, magari prenotato on line, rigorosamente last minute. Tutto questo è il segno che siamo dei grandi conoscitori dell’inglese? Neppure questo: secondo i dati Istat solo il 34% di noi è in grado di sostenere una conversazione decente nella lingua dei Beatles.
Purtroppo, conversazioni del tipo appena citato si orecchiano abitualmente, tanto da far pensare che la lingua di Dante sia oramai in rapida trasformazione in un idioma post-moderno, dal sapore vagamente futurista: l’itanglese.
Maurizio Trifone, docente di linguistica all’Università di Cagliari, nel suo recente Itanglese. Storie di parole da abstract a wine-bar (Carocci, 2025, pp. 256) racconta - attraverso una ricca serie di esempi, spesso divertenti, tratti dalla lingua quotidiana e dai giornali - la storia di questo neo-idioma e delle numerose parole inglesi o angloamericane penetrate nell’italiano in diverse epoche e per vie talvolta imprevedibili.
Attenzione: l’intento di Trifone non è certo quello di criticare l’ingresso di parole straniere nella nostra lingua, né tantomeno di imporre sostituti italiani, ma solo di fare luce su un fenomeno linguistico apparentemente inarrestabile e che in qualche modo dice molto di noi italiani, della nostra eterna attrazione per tutto ciò che è straniero. Dopo la Seconda guerra mondiale, infatti, si sono diffusi stili e modelli di vita provenienti da fuori, in particolare dagli Stati Uniti, e spinti da logiche di mercato e dal marketing. Ed è emersa una certa sudditanza culturale nei confronti del mondo esterno, in particolare quello anglosassone. Tutti elementi figli di un pensiero debole tipico di noi italiani e che ci conduce a un certo vittimismo e a non renderci conto fino in fondo delle nostre potenzialità e dell’importanza dell’italiano. La nostra lingua è, infatti, parte del nostro patrimonio di cultura, di bellezza, di storia e di storie, di idee e di parole. Ci appartiene e ci identifica, come parte di una cultura che ha una vicenda millenaria.
Questa consapevolezza ci dovrebbe spingere a riflettere sulle risorse lessicali a nostra disposizione: generalmente chi parla può scegliere tra un anglicismo e un suo altrettanto valido corrispettivo italiano... a patto che lo conosca, come giustamente sottolinea Maurizio Trifone. Insomma, se si conosce poco la lingua di Dante e si ignorano le sue molteplici opzioni lessicali, alla fine si ricade fatalmente nell’itanglese. Forse allora conviene conoscere e usare di più l’italiano e magari studiare meglio anche l’inglese, ma quello di Cambridge, non di Instagram.