Con una risata e un’aragosta ci ricordiamo di te, Michela Murgia
A due anni dalla scomparsa ricordiamo la scrittrice e intellettuale cabrarese con una novella scritta proprio per L’Unione SardaPer restare aggiornato entra nel nostro canale Whatsapp
La notte del 10 agosto 2023 ci lasciava all’età di 51 anni Michela Murgia. Cabrarese, scrittrice di successo (suo il Premio Campiello con “Accabadora” nel 2010), saggista, conduttrice televisiva, fine intellettuale capace di animare forti e divisivi dibattiti. Nel secondo anniversario della scomparsa, in omaggio alla sua figura pubblichiamo il gustoso (è il caso di dirlo) racconto “L’aragosta”, scritto proprio per L’Unione Sarda e pubblicato dal nostro giornale il 22 agosto 2010. La novella apparve poi, in una versione con minimi ritocchi, nell’antologia “Piciocas. Storia di ex bambine nell’Isola che c’è” nel 2012 per Caracò, quindi è stata ristampata in “Ricordatemi come vi pare” nel 2024 per Mondadori e quest’anno è fra i racconti di punta del volume “Anna della pioggia” pubblicato da Einaudi e curato da Alessandro Giammei.
«L’aragosta data te l’hanno?»
«Tranquilla, già c’è».
Quando gli feci questa domanda, il disastro che doveva succederci non era ancora successo. Giacomo Contu era figlio di un grossista di pesce e agli spuntini ferragostani la mamma lo foraggiava di roba grossa, mica come a noi, che ci davano una parmigiana di melanzane fritte leggera come un blocco di arenaria e a volte mezzo pollo alla griva con il mirto rubato dalle siepi comunali di piazza Azuni. Per questo noi le volevamo bene, alla mamma di Giacomo Contu. Quel ferragosto gli prestavano anche il fiorino, ma quel bonus per noi non cambiava niente: davanti c'era posto solo per lui e la sua pivella Nenna Manca, e il cassone era zona chimica impraticabile: il babbo ci portava le cassette di pesce da vendere a Tiesi e l’odore aveva posseduto la vetroresina come un demone, uscendone a zaffate in modo talmente intenso che avresti detto che usasse apposta l’arbre magique all’anguilla. Le salite dei monti di Santu Lussurgiu ce le saremmo perciò fatte in scooter, senza rimpianto.
Santu Lussurgiu, sì.
Era lì che andavamo, perché il mare nel ’99 ci aveva anche un po’ rotto, che se uno nasce e cresce con i piedi a bagno ad un certo punto comincia a sognarsi la giungla, la prateria, le cime innevate, la foresta pluviale, qualunque posto, basta che non ci sia sabbia. La sabbia era roba per turisti continentali, che infatti in quegli anni si facevano i piani scientifici per arredarsi gli acquari di casa con il quarzo di Is Arutas. Gli adulti riempivano i secchielli e li facevano portare ai bambini, facendo i finti tonti. Il sindaco gli aveva giurato guerra con un'ordinanza draconiana: non solo non andava presa la sabbia, ma divenne “obbligatorio accedere al litorale con scarpe infradito e scuotere bene i granelli dagli indumenti prima di lasciare l'arenile. Previsti controlli individuali.” Bisogna dire che, a parte certi lascivi figuri che iniziarono appositamente a zavorrarsi di quarzo i boxer nella speranza di una perquisizione intima, i più in effetti la smisero.
Sia come sia, nel ’99 quella non era più la nostra battaglia. Sul fronte spiaggia noi avevamo tutti già dato, e tenevamo in curriculum almeno una mezza dozzina di ferragosti tradizionali cabraresi a Mari Ermi, di quelli con le tende condominiali con le verande, i gruppi elettrogeni per i frigoriferi e i barbecue per arrostire i muggini ricavati astutamente dentro vecchi cestelli delle lavatrici rubati in inverno dal cassonetto del vicino, con previdenza. Tutti a quel tempo speravano che si rompesse la lavatrice del vicino.
Quando arrivava Ferragosto Cabras faceva sul serio.
Migliaia di persone occupavano la spiaggia per una settimana e niente era lasciato al caso. Per questo a vent'anni anche il più sfigato dei cabraresi, cresciuto a quella dura scuola, era un veterano della sopravvivenza on the beach, laureato in accensione della carbonella con master di specializzazione nello scavo per tenere in fresco l'anguria, vedetta scelta nel monitorare che la marea non si portasse via le birre e top manager del bisognino tra le palme nane, che per la privacy la macchia mediterranea non la batte nessuno. Noi eravamo consapevoli di essere portatori di questo sapere prezioso, tramandatoci da generazioni di cabraresi prima di noi e tutto sintetizzato simbolicamente in quell’aragosta, nostro venerato animale totem.
Per questo ce l’avevano consegnata religiosamente avvolta in alluminio come una grossa pepita d'acciaio, e Andrea Cutri se l'era infilata orgogliosamente sotto il sellino dello scooter, ergendosi a suo protettore e custode. Era congelata e questo, quando fossimo arrivati al monte, ci avrebbe dato giusto il tempo di allestire un bivacco per arrostirla: allora avremmo potuto dirci a casa anche tra gli animali feroci del Montiferru che ci erano stati annunciati. Correva infatti voce che sul terreno dove intendevamo bivaccare ci fossero allo stato brado delle vacche selvagge dal pelo color ruggine chiamate Bue Rosso, di cui allora si cominciava appena a parlare nei barbecue. Odiavano la gente del Campidano e ci avrebbero attaccato a mandrie se avessimo invaso il loro territorio; ce lo aveva detto la mamma di Nenna, lussurgese di nascita sposata a Cabras, e il fatto che fosse proprietaria sia del terreno che delle vacche che lo infestavano non ci insospettì. Eravamo giovani e cabraresi, conoscevamo solo le furbizie dei muggini.
Prima di partire passammo al salone parrocchiale a prendere due attrezzi dalla cassetta del bricolage con cui a Natale facevamo il presepe. Li sistemammo sotto i sellini degli scooter, e non fu facile fargli posto tra gli yogurt, le salsicce, la frutta, il pane, l’aragosta. Poi andammo al monte, montammo le tende, facemmo il bagno in un torrentello di acqua gelida, esplorammo il territorio con coltelli da bistecca branditi a due mani casomai ci venisse incontro una mandria, e per giorni tutto ci sembrò molto selvaggio e pericoloso. Nessuno di noi si accorse mai che non avevamo mangiato l'aragosta. Giuro che non fu fatto apposta, solo ce ne dimenticammo, perché la vita lì era così bella che non serviva un crostaceo per migliorarla.
Chi poteva immaginare che l'aragosta nel frattempo marcisse dimenticata su un tavolino nel salone parrocchiale, quaranta gradi al chiuso per due settimane? La bestia si decompose con tutta calma. Prima divenne acido, poi corrose il domopak e il suo stesso carapace, impregnò il tavolo di legno, macchiò le piastrelle, appestò il salone parrocchiale, uscì dalle finestre a bocca di lupo del corridoio e se ne sarebbe sentito l'odore pestilenziale sin fuori, se non fossero stati tutti a Mari Ermi ad arrostire i muggini nelle lavatrici.
Se ne accorsero però i corridori scalzi quando dieci giorni prima della festa dovettero entrare nel salone parrocchiale per organizzare la corsa di San Salvatore. Quei probi babbi di famiglia pensarono a un gatto rimasto chiuso dentro, decompostosi per il caldo dopo una disperata morte per fame e sete. Noi ovviamente fingemmo di identificare l'inesistente felino, mentre con ogni mezzo chimico cercavamo di far andare via l'acido dell'aragosta da pavimento e tavolo.
Ho vissuto undici anni con questo orribile segreto dentro.
Mi si capirà se per dirlo ho aspettato la prescrizione del decimo anno.
Michela Murgia