Poeta, musicista, scrittore, Massimo Bubola è una figura centrale della musica d’autore italiana. La sua poetica ha profondamente influenzato la scena musicale nostrana a cominciare da Fabrizio De André, con cui ha scritto e composto due storici album come Rimini e L’indiano, oltre al brano Don Raffae’. Ha inoltre collaborato a grandi canzoni popolari come Il cielo d’Irlanda.

Massimo Bubola, però, è anche narratore sensibile, evocativo, coinvolgente, capace come pochi di riannodare i fili della memoria e far rivivere un passato che assume le caratteristiche della leggenda, del mito popolare. A dimostracelo è l’ultima fatica letteraria di Bubola, Rapsodia delle terre basse (Neri Pozza, 2024, pp. 192, anche e-book). Si tratta di una lunga ballata, ambientata nel Veneto degli anni Cinquanta del Novecento, un romanzo folk-rock in cui Massimo Bubola come un pifferaio magico raduna una carovana di anime balzane, frutti di un albero che affonda le radici nei secoli, e racconta le loro vicende.

"Rapsodia delle terre basse”, infatti, raccoglie le storie di una comunità rurale del tempo che fu, una comunità che vive ancora di miti, visioni, credenze popolari e che si affida alla saggezza dei folli e degli anziani e all’innocenza dei bambini per trovare risposte ai propri dubbi e alle proprie paure. Nel libro di Bubola pulsa così l’anima di un mondo probabilmente perso per sempre, ma capace ancora di parlarci in una narrazione che tiene perennemente in bilico il lettore tra la storia e l’incanto, tra la realtà e il sogno.

A Massimo Bubola abbiamo allora chiesto, prima di tutto, da dove nascono le vicende narrate nel suo libro.

«Le storie che narro nei miei libri nascono da più i fonti. Da quello che ho vissuto, da quello che ho letto e da quello che ho sognato. Però la fontana più grande da cui attingo, ed ha segnato la mia poetica viene in gran parte dalla mia infanzia in una famiglia contadina numerosa e patriarcale, vissuta nella Mesopotamia d’Italia, in Veneto tra l’Adige e il Po e le vicende di questo libro sono state frutto anche di storie che ho elaborato nel tempo e che ho sentito narrare dai miei genitori dei miei nonni».

Nei racconti si avverte una nostalgia per un mondo contadino, di paese...è così?

«Sì, come dicevo pocanzi, quella prima parte della mia vita, in una grande fattoria, circondato da zii e cugini l’ho trascorsa in un piccolo paese della bassa veronese al confine fra Padova e Rovigo. Quindi ricordo bene quell’atmosfera, le famiglie, le persone e i soprannomi. Ho avuto la fortuna da bambino di assistere nelle aie d’estate e nelle stalle d’inverno a delle narrazioni di persone anziane che raccontavano fatti straordinari e mirabolanti per intrattenere un pubblico di ogni età. Quindi i racconti dovevano coinvolgere tutti con storie comprensibili, surreali e potenti da creare silenzio e attenzione ovunque. Quindi ho attinto per questo libro a quella epica contadina dove sono cresciuto».

La copertina del libro
La copertina del libro
La copertina del libro

Nel libro si avverte come i protagonisti siano parte di una comunità. Quanto potrebbe essere importante recuperare oggi la dimensione comunitaria che spesso aveva la vita contadina?

«Fare parte di una comunità è sentirsi fin da bambini coinvolti, protetti e partecipi alla vita di tutti. Credo che sia una delle sensazioni più belle e corroboranti che ho mai provato nella vita. Infatti, ho sempre cercato poi di riprodurre quel clima e quell’umanità che mi ha circondato fin da bambino e reso felice e di regalarlo ai miei figli e agli amici, essendo poi cresciuto in città, anche se i tempi ormai andavano così radicalmente mutando e quel mondo in gran parte è scomparso. Credo che scrivere libri di questo tipo sia per me un tentativo di testimoniare almeno un po’ di quella di felicità, anche quella se era una vita spartana e sobria. Il mio è anche un tentativo di risarcimento, per chi quel mondo non ha avuto la fortuna di conoscerlo e di viverlo».

Un personaggio centrale nel libro è don Luigi, il parroco, una figura insolita per un piccolo paese rurale dell’Italia pre-boom economico…

«Don Luigi senz’altro è una persona che ha un forte altruismo e soffre la sua condizione di parroco, che negli anni Cinquanta del Novecento in un paesino veneto eran una posizione di forte potere sociale. Vive quindi una sorta di dicotomia tra il suo spirito caritatevole, coraggioso e senza compromessi col suo stato di autorità religiosa e civile. Don Luigi esprime una costante insofferenza per le regole e le convenzioni del perbenismo cui lo costringe il suo ruolo. Infatti, questa inquietudine la esprime e fumando anche in situazioni poco consone, porta i capelli lunghi e suona la chitarra. Una sorta di prete beat ante-litteram».

Per finire: quale differenza corre tra scrivere testi per la musica e dedicarsi alla letteratura?

«Scrivere un romanzo, usando una metafora sportiva, è come passare dai 100 metri piani della letteratura breve, come le poesie e le canzoni a cui mi sono dedicato maggiormente, alle distanze più lunghe della narrativa che potremmo paragonare a corse come i 10.000 metri o la maratona. Lo stile però non cambia con la distanza, perché uso sempre una scrittura con un suono e con delle metriche interne. Credo che sia come realizzare un grande affresco con la cura e la minuziosità di chi dipinge miniature. Quindi è uno scrivere più denso e accurato, che ha forte carattere di sintesi: infatti qualche critico letterario ha parlato al riguardo di prosa poetica».

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