Non si può fuggire da se stessi
Sabrina Grementieri ci racconta una storia di sentimenti, legami e verità troppo a lungo nascostePer restare aggiornato entra nel nostro canale Whatsapp
La vita ci insegue, anche quando cerchiamo in tutti i modi di sfuggirle, cerchiamo di dimenticare che il passato, i legami non si cancellano mettendo chilometri e anni tra loro e noi. Fuggire è quello che sta cercando di fare Marianna - la protagonista del romanzo di Sabrina Grementieri “Il sole di sera” (Love edizioni, 2024, pp. 432, anche e-book) - quando un imprevisto rompe la sua quotidiana routine di giovane donna on the road.
Marianna, infatti, vive in un furgone camperizzato e lavora come stagionale negli alberghi. Quando, appena diplomata, si è messa in viaggio, non aveva idea di quanto tempo questo sarebbe durato. Dopo quindici anni, è ancora convinta di avere fatto la scelta giusta: l’assenza di radici, di legami e di affetti, sempre pronta a partire al primo segnale di disagio, la fanno sentire libera e al sicuro dalle delusioni.
Quando il furgone ha un guasto improvviso, Marianna è costretta a fermarsi in un antico borgo ristrutturato sull’Appennino tosco-romagnolo: un luogo incantevole, popolato da gente ospitale e curiosa. In attesa che la sua casa mobile venga riparata, trova lavoro nel ristorante del paese: lei è un’ottima cameriera e Benno, il titolare, è entusiasta. Tra i due nasce una forte attrazione, che Marianna cerca di soffocare: non ha alcuna intenzione di stabilirsi tra quelle montagne, dunque meglio non affezionarsi a nessuno. La sosta forzata, però, apre uno spiraglio nella sua armatura che permette ai ricordi di intrufolarsi e cambiare le carte in tavola.
Perché al passato è impossibile sfuggire come ci conferma l’autrice del libro, Sabrina Grementieri:
«No, non credo si possa sfuggire al proprio passato. Si può però affrontarlo e accettarlo, e trarre dalle ingiustizie e dalle sofferenze le energie per andare avanti. Mi rendo conto che sia una teoria perfetta e spesso troppo lontana dalla realtà. Ma penso anche che non abbiamo molta scelta: non si può riavvolgere la pellicola del passato e l’unica cosa che ci resta è il futuro, ed è su questo che dobbiamo convogliare tutte le nostre energie».
Come è nata la storia che sta alla base del libro?
«Come nei miei precedenti romanzi, anche questa volta, la molla che mi ha spinto a scrivere questa storia è stata l’ambientazione. In questo caso un vecchio borgo abbandonato sugli Appennini, che con la fantasia ho ristrutturato e ripopolato. Volevo raccontare del fascino di questi luoghi sperduti, dei silenzi e dell’energia che ancora abitano in quel luogo. E del potere taumaturgico che la natura esercita su uomini e donne. Gli abitanti del borgo hanno scelto di propria volontà di tornare a viverci: non tutti hanno un passato doloroso o ferite da curare, più semplicemente hanno preferito allontanarsi dalla frenesia della vita in città per rimettersi al passo con i ritmi della natura. Marianna, la protagonista, capita per caso tra quelle montagne, ma si accorge presto di quanto forte sia il loro richiamo».
Insomma, per quanto a lungo si sia stati in viaggio, non si può vivere senza legami e senza un qualche radicamento…
«Come diceva Aristotele, siamo animali sociali, sviluppiamo e perfezioniamo capacità grazie alle relazioni, alle interazioni con il prossimo. Possiamo spezzare legami che ci danneggiano, oppure scegliere, come Marianna, di vivere una vita randagia. Ma, a meno di non isolarsi in un luogo sperduto lontano da qualsiasi forma civile, non siamo mai del tutto privi di legami. Per quanto riguarda le radici, c’è una bellissima frase di Cesare Pavese che spiega il concetto molto meglio di me: ‘Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti’».
Cosa c'è in lei del personaggio di Marianna?
«L’amore per i viaggi, per le montagne, per i boschi e i silenzi».
Il libro è ricco di pagine e di avvenimenti...come è stato scriverlo?
«È stato un parto podalico! Scherzi a parte, questo libro mi ha fatto davvero sudare le proverbiali sette camicie. Mi sembrava di non riuscire a rendere su carta quello che mi si agitava nella testa, le emozioni, il dolore, gli ostacoli, la bellezza. L’ho scritto e riscritto molte volte. Complici di queste mie difficoltà anche gli ultimi anni di studio che, se da una parte mi hanno insegnato molto, dall’altra mi hanno resa più critica a proposito del mio lavoro. Il mio approccio alla parola scritta è diventato di sicuro più professionale, ma c’è ancora così tanto da imparare!».
Ma alla fine le piacerebbe vivere in un borgo come quello del romanzo?
«Sì. Assolutamente sì».