Alla sua morte, Ciccitta Lampis lascia la nipote Lia e le figlie Ruth, Ester e Noemi in condizioni economiche difficili. L’unica soluzione possibile per risollevarsi sembra mettere in vendita il “numero venti”, un edificio lungo la via principale del paese di Santa Gisa, un piccolo (e immaginario) centro del sud ovest sardo. Un palazzo di proprietà della famiglia da generazioni. Nasce però un problema: prima di morire, Ciccitta ha firmato un contratto di locazione con un “forestiero”, Giorgio Albert, di Parigi, perché possa aprirvi una libreria. E l’uomo la libreria la vuole proprio aprire, nonostante in Paese ben pochi leggano e abbiano voglia di accogliere un estraneo. Il “numero venti” diventerà però crocevia di romanzi e di tradizioni perdute che non solo ricorderanno alle Lampis quanto della loro storia abbiano messo da parte, ma faranno soffiare il vento del cambiamento su una comunità che ha dimenticato sé stessa.

Dichiarato omaggio ai personaggi e alle atmosfere di "Canne al vento” di Grazia Deledda, “Mezzo giro di velluto” (Edizioni Effetto, 2022, pp. 368), rappresenta l’esordio letterario di Mirco Cogotti, nato a Carbonia e parigino d’adozione. Un libro, quello di Cogotti, che ci aiuta a capire come nulla possa unire una comunità più della tradizione. Ma nessuna tradizione potrà mai sopravvivere senza includere il nuovo.

All’autore chiediamo allora perché, a suo parere, tradizione e memoria sono tanto importanti?

“Mi lasci premettere che per molto tempo la Sardegna ha rappresentato il passato, gli inverni ventosi, le giornate lunghe. Quando mi sono trasferito a Parigi ero prossimo ai trenta e avevo deciso di fermarmi dopo anni trascorsi a fare il giramondo. Ma era dannatamente dura: non avevo un lavoro stabile, vivevo in uno sgabuzzino, ero solo. In compagnia dei libri di Grazia Deledda ho affrontato quel periodo e mi sono ritrovato a ricordare i borghi abbandonati, le feste patronali, le nostre montagne senza tempo, i paesini spopolati. Grazie a loro ho iniziato a scrivere questo romanzo e ho trovato un lavoro che mi permettesse di restare a Parigi. Ecco, la tradizione e la memoria servono a questo: a farci capire dove vogliamo andare”.

Ma perché Giorgio Albert vuole proprio trasferirsi a Santa Gisa?

“Sicuramente posso dirle che Giorgio fa quello che molti giovani fanno ogni giorno: si trasferisce altrove per realizzare un sogno. Sorprende giusto che si trasferisca nel Sulcis quando avrebbe potuto aprire una libreria anche a Parigi. Ma qui mi sento di dire che ragioniamo per categorie banali: il sogno di aprire una libreria in una grande città e quello di farlo in un piccolo centro non sono per forza corrispondenti. E se siamo abbastanza bravi da mettere da parte le logiche del profitto a cui siamo stati educati possiamo anche riconoscere la legittimità di entrambi. Per rispondere alla sua domanda, Giorgio Albert è mosso dalla volontà di rendere un servizio alla collettività attraverso i libri”.

La copertina del libro
La copertina del libro
La copertina del libro

Cosa rappresenta nel suo romanzo il palazzo al “numero venti”?

“In genere le prime case che si incontrano entrando in paese sono quelle buone, appartengono alle famiglie ricche e per bene. Il numero venti dovrebbe appartenere a questa categoria, ma è abbandonato da tempo ed è vittima della malasorte. Rappresenta la decadenza e l’oblio di un passato che non sembra più disposto a raccontare nulla di sé, rivestendo in qualche misura il ruolo di Casa Pintor in Canne al vento. Le sue mura gridano riscatto e da qui l’arrivo di Giorgio Albert che decide di trasformarlo in una libreria”.

Perché proprio una libreria quando si sa che i libri vendono ben poco?

“L’adolescenza nel Sulcis e soprattutto gli anni al liceo classico mi hanno insegnato che non esiste nulla di più salvifico dei libri: sono compagnia nei momenti di solitudine, protezione quando ci sentiamo fragili, arma quando dobbiamo difenderci. Danno poi lo straordinario dono dell’ubiquità permettendo di viaggiare nel tempo e nello spazio a nostro piacimento. Mi creda, non c’è nulla che possa riscattare un vecchio edificio o una comunità smarrita quanto una libreria”.

Ma tradizione e cambiamento possono realmente coesistere?

Io mi chiederei piuttosto se la tradizione possa davvero esistere senza il cambiamento. Ogni gesto, ogni frase, ogni rituale nel quale ci troviamo a riconoscerci come comunità sono la somma di tanti piccoli cambiamenti per cui una collettività si è trovata a passare e ad accettarsi. La verità è che molto spesso usiamo impropriamente la parola tradizione con l’accezione di limite o barriera, il muro che separerebbe un ‘noi’ da un ‘loro’, quando si tratta piuttosto di un terreno comune, nel quale accogliere l’arrivo del diverso. Ed è su questo terreno che dovremmo sentirci sempre pronti a scrivere nuove tradizioni, che guardino al nuovo preservando il passato. Può sembrare una sfida complicata, ma in realtà è quello che le comunità fanno da millenni, con buona pace di ogni ideologia”.

Avrebbe mai potuto nascere un romanzo come questo senza il suo trasferimento a Parigi?

“Non ho smesso di abitare la Sardegna neppure negli anni in cui credevo di averla dimenticata. La vivo un po’ ogni giorno, mentre cammino lungo la Senna in cerca di ispirazione o mi perdo tra i capolavori del Louvre. Tuttavia, non posso negare che questo libro sia stato scritto anche da quella parte di me che adora passeggiare il lunedì sera per Montmartre, quando piove e non ci sono turisti per strada. Sicuramente quanto di più parigino abbia consegnato alla storia sono i riferimenti alle librerie. A modo loro ci sono tutte: da Les mots à la bouche, alla Shakespeare & co, fino alla librairie Monte Cristo alla quale ho rubato un dettaglio abbastanza importante. Mi piace pensare che Santa Gisa possa essere quel luogo in cui Parigi e il Sulcis si sono magicamente incontrati, come è accaduto da tempo nel mio animo”.

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