Nel 1896 una delle pioniere della lotta per i diritti delle donne, l’americana Susan Brownell Anthony, affermò che andare in bicicletta era l’attività che più di ogni altra stava contribuendo all’emancipazione femminile. La bici, infatti, permetteva di muoversi in piena libertà e di spostarsi in autonomia in un’epoca in cui era considerato scandaloso per una donna andare in giro senza essere accompagnata da un maschio di famiglia - padre, fratello e marito che fosse -, peggio ancora se da sola.

Quello che oggi ci appare abituale come una pedalata “tutta femminile” era, dunque, una vera e propria conquista per le donne di poco più di un secolo fa. Anzi fu solo il primo passo per combattere una serie di pregiudizi come ci racconta “Donne in bicicletta” (Ediciclo Editore, 2020, pp. 497), libro vincitore quest’anno del Premio Bancarella Sport.

In questo saggio interessante e ben documentato la giornalista Antonella Stelitano ripercorre con dovizia di particolari e anche di dati la storia del ciclismo femminile nel nostro Paese, una storia che è anche, come detto in precedenza, una vicenda di emancipazione femminile e lotta contro i pregiudizi. Andare in bicicletta, fin dall’apparire di questo mezzo rivoluzionario – pensateci: la prima “macchina” pensata per muoversi in completa autonomia! – venne considerata un’attività per nulla femminile. Non solo perché regalava libertà alle donne, ma anche perché necessitava di un abbigliamento “sportivo” considerato indecente. Inoltre, per lungo tempo si ritenne che uno sforzo come pedalare con bici che pesavano oltre 20 chili come quelle del primo Novecento nuocesse alla salute femminile o, addirittura, rendesse le donne sterili.

La copertina del libro
La copertina del libro
La copertina del libro

A far cambiare le cose furono alcune pioniere che si dedicarono al ciclismo sportivo come la famosa Alfonsina Strada che partecipò in mezzo a una torma di colleghi uomini al Giro d’Italia del 1924 giungendo al traguardo della massacrante competizione. E ancora di più fecero le tante donne che cominciarono a spostarsi per lavoro in bici oppure che rischiarono la vita a cavalcioni delle loro due ruote come staffette partigiane.

Come racconta Antonella Stelitano i tanti cambiamenti del Dopoguerra, compreso il fatto che dal 1946 le donne potessero votare ed entrare in Parlamento, non aprirono immediatamente la strada al ciclismo come attività sportiva al femminile. Dovette arrivare il 1962 perché finalmente anche in Italia si organizzassero delle gare e nascessero delle squadre di cicliste. I problemi però non erano superati e molti dei pregiudizi esistenti a fine Ottocento continuarono a sopravvivere.

Emblematica è la vicenda di Florinda Parenti, nata nel 1943 e figlia di un italiano emigrato per lavoro in Belgio. Nel suo Paese di adozione aveva partecipato fin da giovane a gare ciclistiche e venne contattata per questo per fare parte della squadra tricolore che doveva partecipare ai Mondiali del 1962. Florinda accettò con entusiasmo ma dovette fare in conti prima con un medico che le negò l’idoneità agonistica sostenendo che andando in bicicletta non avrebbe più potuto avere figli. E poi dovette fronteggiare il suo datore di lavoro che la licenziò in tronco dopo aver visto il suo nome nell’ordine di arrivo di una gara sulla Gazzetta dello Sport. Certo, poi le cose sono cambiate e sono arrivati miti del ciclismo al femminile come Maria Canins, Paola Pezzo e Antonella Bellutti che hanno trionfato in Tour de France, Mondiali e Olimpiadi. Però la storia del ciclismo nostrano ci ricorda che solo pochi decenni fa una donna in bicicletta dava scandalo, segno che certi comportamenti che oggi condanniamo – giustamente, ci mancherebbe – in nazioni come l’Afghanistan non sono poi tanto distanti da noi, almeno dal punto di vista temporale. Meglio ricordarsene.

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