Storie nere della storia d’Italia dalla nascita della nazione ai giorni nostri: ecco il fulcro di “Sangue italiano” (Neri Pozza editore, 2024, pp. 320, anche e-book), saggio del giornalista Roberto Casalini, cagliaritano di nascita e sassarese di adozione.

Un volume fuori dagli schemi perché racconta vicende sanguinose e sanguinarie, riconducendo anche i delitti in apparenza più “privati” allo spirito dei tempi.

Emerge così quello che Casalini definisce «il cuore di tenebra del "carattere italiano”, se carattere italiano esiste: la brutalità primigenia che riaffiora anche nella modernità avanzata». 

Crimini passionali e familiari, delitti di avidità e vendetta, fuorilegge da Musolino a Riina, mafie, assassinii politici, misteri e stragi, omicidi che ancora si ricordano e quelli che furono celebri ai loro tempi: dalla Contessa Lara uccisa dal giovane amante e mantenuto al caso Murri che sconvolse Bologna; dalla contessa Tarnowska, dark lady russa a Venezia, a Gino Girolimoni, falso mostro di Roma inventato dal fascismo; da Leonarda Cianciulli, la saponificatrice di Correggio, alla “belva di San Gregorio” Rina Fort.

E poi il delitto del bitter, quello del curaro e quello del vetriolo, la Mantide di Cairo Montenotte e la Circe della Versilia, il falso biondino della spider rossa, la modella che uccide il playboy e il canaro che fa a pezzi il suo persecutore. Tra figli che ammazzano i genitori e adulti che uccidono gli implumi, le storie inquietanti degli assassini seriali. E, accanto ai casi di cronaca nera, le storie di un’Italia che ha la criminalità organizzata più aggressiva e pervasiva d’Europa, oltre che bande e banditi leggendari, da Musolino a Mesina, dal clan dei Marsigliesi alla banda della Magliana.

Anche la lotta politica in Italia è stata vicenda feroce con molti caduti, da Cavallotti a Umberto I, da Matteotti ai fratelli Rosselli, fino ad Aldo Moro e Mino Pecorelli. Ed è costante, in Italia, la vulnerabilità della democrazia, periodicamente esposta a tentazioni autoritarie e colpi di mano dall’alto.

La copertina del libro
La copertina del libro
La copertina del libro

Insomma, una miscela di violenza esplosiva che ci porta a chiedere a Roberto Casalini quale è stata la molla che l’ha portato a un libro su un argomento così complesso da trattare come la pervasività della criminalità nella società italiana?

«Sono partito dalla cronaca nera. Ma i delitti, avulsi dalla storia più grande, rischiavano di essere soltanto racconti dell'orrore - il vampiro della Bergamasca, la saponificatrice di Correggio - o gialli di cui riscrivere il finale, e non mi affascinava l'eterna querelle fra colpevolisti e innocentisti che accompagna molti casi. Sentivo il bisogno di inserire gli omicidi in un contesto. Così ho ripercorso la storia d'Italia dall'Unità a oggi, per trovare un correlativo alla violenza privata nella violenza pubblica».

Cosa intende quando parla nel libro del cuore di tenebra del carattere italiano?

«Ci siamo raccontati, spesso e volentieri, come ‘italiani brava gente’. Ma accanto a un'Italia generosa e solidale, esiste ed è esistita un'Italia feroce, votata a distruggere e a nascondere la polvere sotto il tappeto. La guerra contro il brigantaggio e il banditismo parla di paesi rastrellati, di popolazioni perseguitate in blocco, di massacri. Un libro pubblicato nel 1900 da un militare toscano, Giulio Bechi, attivo in Sardegna contro i banditi, si intitola non a caso Caccia grossa. I banditi come cinghiali, come mufloni. In Italia l'esercito ha avuto a lungo la mano libera, con gli stati d'assedio. E si è reso autore di episodi efferati, nelle guerre coloniali e nella Seconda guerra mondiale. Il nostro paese ha conosciuto una dittatura e lunghi periodi di scontri più che accesi, di guerre civili. Anche i delitti della gente comune hanno risentito di questo clima infiammato, caricandosi spesso di un sovrappiù di violenza».

Quanto ha contato nella violenza italiana quello che lei ha definito "l'individualismo quasi autistico"?

«Una società autoritaria può anche far sfilare i cittadini in parata, ma non sviluppa il civismo, non educa a sentirsi parte di una comunità. La società italiana ha conosciuto un diffuso antistatalismo. Nell'Ottocento il nemico era lo Stato esattore che imponeva la tassa sul pane, lo Stato che imponeva la leva obbligatoria. Uno Stato lontano porta a ripiegare su sé stessi, a pensare: la legge e la giustizia me la faccio io».

Siamo ancora una società di familismo amorale come diceva un'antica indagine?

«Il concetto di familismo amorale, elaborato dal 1958 dal sociologo americano Edward C. Banfield in un'indagine sul Meridione italiano, è stato molto contestato. Si è detto che zone di familismo amorale esistono in tutto il mondo, che non è una caratteristica nostra. Ma è certo che privilegiare la famiglia contro e sopra le leggi, nella nostra storia criminale, ha pesato. I delitti sono stati il più delle volte coperti, occultati dalla cerchia degli assassini. Soltanto in pochi casi che documento - Murri nel 1902, Picchioni nel 1946, Nigrisoli nel 1963 - le denunce dei colpevoli sono arrivate dai familiari».

Che ruolo ha avuto la violenza pubblica nel nostro Paese?

«Quello di generare instabilità, paura e diffidenza. A intervalli ciclici, diciamo ogni venti trent'anni, l'assetto istituzionale è stato messo in discussione dall'alto e dal basso. Dall'alto con colpi di mano, golpe riusciti o tentati, con lo stragismo. Dal basso con moti di piazza e jacquerie contadine, voglie di rivoluzione, terrorismo. È come se periodicamente la nostra democrazia dubitasse di se stessa».

Perché chiude il suo libro con un capitolo intitolato l'età dell'ansia?

«Perché in Italia non si è mai ucciso così poco - dalla fine degli anni Novanta del Novecento gli omicidi sono calati del 75% - e al tempo stesso l'insicurezza, la richiesta di protezione non è mai stata così alta. C'entra forse un contesto mondiale angoscioso di guerre, pandemie, crisi economiche e climatiche. C'entra senz'altro il fatto che i delitti di oggi - la madre amorevole che uccide il figlio, gli adolescenti cresciuti negli agi che sterminano i genitori, i molti femminicidi - danno l'idea che l'assassino sta nella porta accanto, mentre una volta il delitto era o veniva percepito come lontano da noi».

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