Ha curato grandi mostre e diretto per anni Su Palatu, il polo culturale della fotografia in Sardegna fondato da Salvatore Ligios a Villanova Monteleone. Sonia Borsato, algherese, docente nell'Accademia di Belle Arti a Sassari da anni rappresenta una delle voci più autorevoli quando si parla di scrittura legata all'immagine. Segue con attenzione il mondo della fotografia e ricopre anche il ruolo di direttrice artistica del festival Alghero Street Photography Awards, manifestazione anagraficamente giovanissima, ma apprezzata sia a livello italiano che internazionale.

Ricorda quando ha iniziato a occuparsi di fotografia?

"È stato un incidente. Possiamo ironicamente dire così. Avevo seguito i corsi di Claudio Marra al Dams, ma ero troppo giovane per cogliere tutta la complessità, la raffinata introspezione di un mezzo come la fotografia. Avevo bisogno di più tempo per far maturare il vero interesse. Dopo il periodo di formazione e altre esperienze, ho deciso di tornare in Sardegna e ho iniziato a lavorare a Sa Domo, lo spazio dedicato all'arte contemporanea attiguo a Su Palatu, a Villanova Monteleone. Mi aveva coinvolto Mariolina Cosseddu, curatrice, critico d'arte, mia professoressa al liceo e poi grande amica e punto di riferimento nelle chiacchiere artistiche. Avremmo dovuto sviluppare una programmazione indipendente ma io ero troppo affascinata dal lavoro di Salvatore Ligios e del team di Su Palatu e passavo lì la maggior parte del tempo osservando, imparando: la vera scuola è stata quella. Così nel giro di poco tempo mi sono "trasferita" da Sa Domo a Su Palatu, che resta idealmente la mia "famiglia".

Quali sono i fotografi di riferimento?

"Non so se si possa parlare di "fotografi di riferimento" non essendo io una fotografa. I miei riferimenti attengono maggiormente alla scrittura legata all'immagine che non all'immagine in quanto tale, dunque direi Rosalind Krauss, Susan Sontag, Lea Vergine, Roberta Valtorta, Federica Muzzarelli, Viviana Gravano, Judith Butler, Griselda Pollock... e sicuramente sto dimenticando qualche autrice fondamentale. Se invece dovessi fare nomi di fotografe, allora sono quasi "piaceri privati": autrici che guardo sempre come a una esortazione emotiva, una conferma nel percorso: la caparbia autodeterminazione di Claude Cahun, l'opera totale di Francesca Woodman, la ricerca spericolata di Cindy Sherman, la vita sgualcita di Nan Goldin, la ferma comprensione di Rineke Dijkstra, la composta malinconia di Moira Ricci. Ci sono troppe immagini che hanno segnato e segnano i miei giorni, potrei andare avanti per ore".

Finora ha parlato di fotografia al femminile.

"Ho volutamente fatto una selezione di nomi femminili ma ci sono tre nomi maschili a cui sono legata, autori che sanno essere sempre nuovi, autentici, inediti: "grandi fraintesi", in un certo senso. Devo molto alla quotidiana religiosità delle polaroid di Andrej Tarkovskij, al "rinnovato stupore" di Luigi Ghirri e ho nel cuore l'apparentemente scandaloso Araki. Le foto fatte alla moglie Yoko in Sentimental Journey e poi in Winter Journey sono una sorta di educazione sentimentale. Commovente. Sempre".

Qual è il primo catalogo che ha curato?

"Per me, nella mia memoria, esiste un solo catalogo, quello della mostra che Roger Ballen ha tenuto a Villanova nel 2008. Io ho "solo" scritto il testo critico, la cura è stata di Salvatore Ligios. Ma la cosa bellissima a Su Palatu era che tutto veniva fatto in maniera corale, ogni aspetto condiviso, discusso. Ricordo ancora benissimo le chiacchierate per scegliere la copertina, la successione delle opere, l'impaginazione: è stato un "parto collettivo". Ma soprattutto ricordo l'emozione di lavorare con un autore come Ballen. L'ansia, la curiosità, il timore. Un enorme privilegio".

Ricorda quando a visto la prima mostra?

"Mia madre insegnava educazione artistica, dunque la visita alle mostre ha fatto parte del mio immaginario da subito. Ma la prima mostra di cui ricordo l'emozione, la potenza, il peso anche, è stato Caravaggio alla Galleria Palatina di Palazzo Pitti a Firenze. Avevo tredici anni. Era inevitabile restare impressionati".

Qual è stata la prima mostra che ha organizzato?

"La prima operazione che ho sentito parte di un percorso è stata Ateros Cuentos, mini rassegna di tre appuntamenti realizzata con altre due curatrici (Mariolina Cosseddu e Lia Turtas) proprio a Sa Domo, che è stata una grande palestra, una vera occasione di sperimentazione".

Nelle vesti di giurato cosa cerca in un progetto fotografico?

"In un progetto fotografico cerco molte cose, forse non facilmente definibili. Prima di tutto una "voce" che sia autentica. Mi interessano i lavori che, a vario titolo, sono lo specchio di un oggi complesso, multisfaccettato, tagliente. Non cerco risposte, cerco domande. Non amo i lavori ruffiani, esteticamente leziosi, fatti esclusivamente per piacere. Non mi convincono i "compitini a casa". Mi seduce la narrazione, la costruzione intima, l'indagine, la stratificazione".

Come giudica la qualità delle mostre organizzate in Sardegna.

"Nell'eterogeneità dell'offerta è difficile dare un giudizio netto, e la domanda è molto spalancata, dunque per sua natura sdrucciolevole. Mi verrebbe da ribattere: organizzate da chi? Enti pubblici o piccole realtà private?. Perché il peso cambia. Cambia nella misura in cui si devono considerare i ruoli differenti e il differente impegno e coraggio richiesto. Cambia anche la missione che ci si prefigge. Una cosa è storicizzare, portare alla gloria, un'altra è fare ricerca, concedersi lo sbaglio. Una cosa è essere costretti a ragionare sul numero di ingressi, un'altra è poter utilizzare l'arte per interrogare un quotidiano afflitto e farlo in maniera politica, problematica. Ci sono senza dubbio piccole perle che però vivono come tali: gemme preziose spesso isolate dal contesto e forse non pienamente capite. Per il resto spesso si corre il rischio di scivolare nel "mostrificio", il fare per fare, oppure la conferma del conosciuto, la sicurezza del nome noto (e possibilmente morto), lo sciacallaggio sul sempreverde concetto dell'identità che non posa su nessuna riflessione autentica, scarsissimo interesse per le giovani generazioni. Non voglio essere fraintesa: ci sono grandi professionisti. Ma devono essere messi in condizione di poter lavorare bene, a lungo termine, tracciare un disegno. Dovremmo poter ballare un "ballo a tre passi": nel territorio, per il territorio, con il territorio. Ma mentre balli non ti guardi i piedi. Guardi in alto. Verso l'orizzonte".

Come mai in Sardegna ci sono poche gallerie? Una questione di costi o di mancanza di cultura fotografica.

"La galleria in quanto tale deve avere un riscontro economico che può innervarsi solo laddove incontra un substrato culturale adatto. È da ingenui pensare che le due cose siano scisse. Non dico che gli acquirenti siano sempre mossi da profonda conoscenza: molto spesso le scelte sono frutto di passione, moda, emulazione, scelte arbitrarie che, comunque, si inseriscono in un "contesto culturale". Se la società in cui lavori continua a ritenere elitario e identificativo un quadro - qualsiasi sia la corrente, il periodo o l'autore - perché, in qualche modo, rassicura il collezionista che lo può "ostentare". Allora sarà difficile inserire in un circuito di vendita l'"oggetto" fotografia. La fotografia resta vittima di un fraintendimento legato al suo DNA che la rende apparentemente alla portata di tutti, riproducibile: abbiamo imparato a goderne esteticamente, concettualmente, ma nel momento dell'investimento riveliamo il retaggio di un passato Baudelairiano".

La sua ricerca si muove tra corpo e paesaggio. Come mai? "Sono l'uno l'inevitabile specchio dell'altro. Solo in una fase acerba del percorso li ho visti come distanti e del paesaggio percepivo come un peso la portata politica, ma poi è stato naturale vederli confluire l'uno nell'altro. Un rapporto di reciproca influenza e determinazione lega corpi e paesaggio, spazi e carattere, poeticissima riflessione su cui si attarda Pasolini in Comizi d'Amore attraversando l'Italia nella sua interezza. Per me funzionano come una rima baciata: l'uno mi serve per arrivare all'altro e viceversa. Purché ci si addentri nelle pieghe meno indagate dell'esistenza, negli interstizi. Non il sensazionale ma il laterale, che poi appartiene a ciascuno di noi".

Qualcuno dice che oggi siamo tutti fotografi. Cosa ne pensa? "Oggi tutti possiedono una macchina fotografica o almeno un buon cellulare. Essere un fotografo è un'altra cosa. Fare uno "scatto fortunato", avere un buon riscontro sui social non significa essere un fotografo, non equivale a sentire la responsabilità di una narrazione. Guardare non significa vedere. E vedere è un atto rivoluzionario. Come faceva notare Alain Jaubert, scrittore e giornalista francese, "ogni giorno vediamo centinaia di immagini fotografiche e noi le accettiamo come accettiamo le nuvole". Siamo davanti alla stessa poesia, ma anche alla stessa evanescenza. E questo rende difficile, alle volte, porsi interrogativi, attendere sostanza. Che invece deve essere cercata, pretesa, trovata".

Ci può raccontare in breve l'esperienza come direttrice artistica dell'Aspa di Alghero?

"Aspa è stata una opportunità interessante, una sfida alla quale non potevo dire di no. Il festival ha una paternità precisa: è stato ideato da Marcello Perino e dai ragazzi di Officine di Idee che mi hanno proposto di far parte di questa avventura, perché fare un festival può solo essere un'avventura. Lavorare nella propria città è emozionante ma anche doppiamente impegnativo perché ci tieni ancora di più, perché capisci e conosci il potenziale di quel luogo, perché vorresti dare il meglio. Alghero potrebbe davvero diventare una piccola capitale della fotografia. E questo sia per la sua natura di città che sia apre al Mediterraneo ma anche perché Aspa ha un grande potenziale. Non lo dico perché ho avuto il piacere di averne la direzione artistica ma perché ha una formula che mette insieme molti aspetti: un contest aperto e inclusivo, giurati di alta qualità, momenti "sociali" come la serata di premiazione che si alternano ad appuntamenti di formazione, mostre di altissimo livello: in sintesi ha in se i due punti che sono, secondo me, fondamentali: la capacità di accogliere un pubblico eterogeneo ritagliando anche momenti di approfondimento. Nell'esperienza "festival" le persone devono stare bene, ritrovare uno spazio che sentono loro, ma devono anche porsi delle domande, ritrovarsi cambiate. Altrimenti abbiamo sbagliato qualcosa. Le persone devono essere destate dal torpore dei social senza ricorrere allo shock televisivo. Fare "intrattenimento" non mi interessa". Aspa è un festival "giovane".

Quali sono gli obiettivi e i programmi per il futuro?

"Il futuro al momento lo stiamo ancora disegnando. Come ogni festival giovane dobbiamo far fronte a dinamiche che poco hanno a che vedere con l'aspetto culturale e molto invece attengono a quello economico-burocratico... aspetti che, in questa edizione, richiederanno una rimodulazione per quanto riguarda prima di tutto i tempi di attuazione. Gli obiettivi sono e sempre più saranno quelli di attuare attraverso la fotografia una meditazione sul contemporaneo".

Cosa pensa degli altri festival sardi e dei festival di fotografia in genere?

"Io amo la fotografia. Amo leggerne e amo vederla. Dunque amo le mostre e festival. Questo è un assunto fondamentale. Più ci sono occasioni per vedere e parlare di fotografia, meglio è. Perché intorno alla fotografia ruota lo strano malinteso che sia godibile anche su schermo. Il che può anche essere vero ma certe emozioni devono essere sperimentate dal vivo. Devi poter percepire la selezione, l'allestimento, l'interazione con lo spazio, il gusto della stampa. Nei festival, si ha spesso l'occasione di incontrare gli autori, parlare con i curatori, assistere a lezioni aperte o incontri tematici. Insomma, non confondiamo la fruizione solitaria con la grande possibilità che sono le esperienze condivise. Per questo credo che gli altri festival in Sardegna stiano facendo percorsi importanti, ciascuno con il suo target e la sua specificità".

Lei cura Menotrentuno. Qual è la realtà che emerge da questo festival.

"Insieme a Salvatore Ligios ho curato Menotrentuno, festival internazionale dedicato ai giovani professionisti dello scatto rigorosamente sotto i 31 anni di età. Ogni edizione aveva un tema forte, legato all'età dei partecipanti. La realtà che emergeva era incredibilmente fertile, dinamica, competente, consapevole che molti cambiamenti possono partire da uno sguardo attento, educato, indirizzato. Il grande potere di Menotrentuno era l'intelaiatura sottostante, il racconto simultaneo e corale, il dispiegarsi di occhi che giungevano da tutta Europa per spiegare la loro porzione di mondo. Un mondo che sta cambiando velocemente, che fronteggia il rinvigorirsi di nuovi nazionalismi; il fanatismo religioso sinonimo di fanatismo politico; l'ostilita` razzista che costruisce nuovi muri, fisici e metaforici; l'appartenenza e la migrazione sono temi enormi che pure vengono scandagliati dagli occhi di questi giovani professionisti che sembrano non temere niente guidati dall'intima esigenza di porre evidenza, capire, restituire luce".

Come è stata l'esperienza alla direzione di Su Palatu? "L'esperienza della direzione di Su Palatu è stata breve ma intensa. Lavoravo li già da un po' e poi sono succeduta a Salvatore Ligios. La direzione ha affinato in me aspetti meno visibili del "fare cultura", organizzativi e relazionali. E' stata una occasione di crescita fondamentale. Su Palatu come spazio per la fotografia è stato un unicum per la durata, coerenza nella programmazione, dedizione, ma è stato anche giusto che si trasformasse in altro una volta venute meno le condizioni per un lavoro aperto, sincero e lungimirante. Purtroppo camminare carponi in uno stato di nebbia e miopia non era il caso nostro. Così ci siamo mossi verso esperienze nuove, strutturate in maniera più dinamica, senza il pensiero dello spazio ma proiettati solo verso il fare, il costruire, il raccontare. Prima radicavamo in un luogo che ci identificava, ora migriamo ovunque abbia senso lavorare".

Salvatore Ligios dice che in Sardegna la fotografia e materia poco attraente. Cosa ne pensa.

"Mi piace sempre molto discutere con Salvatore Ligios di fotografia e non solo. Molte volte mi viene quasi da prendere appunti, altre invece divergiamo nettamente. In questo caso specifico credo Ligios ragioni da fotografo. Inevitabilmente. Al contrario io credo che la Sardegna sia fortemente attratta dalla fotografia, perché i sardi sono narratori! E la fotografia è scrittura di luce: una scrittura asciutta, silenziosa, in levare. Perfetta per noi. Non è la fotografia a essere poco attraente ma è tutto il mondo culturale che si ritrova gravato da strane ibridazioni con "eventi" (vaghissima la natura di questi crossover) per cui ne risultano entrambi ridicolizzati, l'intrattenimento e l'operazione artistica. Operazioni strizzate in contesti laterali con rara riconoscibilità da parte delle amministrazioni locali che rispondono spesso solo ai grandi numeri e si presentano tardive e fugaci ponendo non pochi interrogativi sul senso di tutto questo. Aggiungerei inoltre il solito diffettuccio del sentirsi nani: nani che aspettano giganti che li portino sulle spalle. Aspettiamo che arrivino "da fuori" a raccontarci, mostrarci, insegnarci. E noi qui, fermi, con le nostre capacità, specificità. Li vediamo vincere gare, bandi e fregarsi l'isola! Non è la fotografia a essere poco attraente. O meglio, lo è nella misura in cui ti costringe a vedere le cose in maniera più netta e tagliente, allora sì, forse lo è. Altrimenti credo siano poco attraenti solo le cose inedite. Sono poco attraenti i percorsi che chiedono fatica, riflessione, coinvolgimento. Ma la riflessione e il coinvolgimento sono il salvagente che ci permetterà di attraversare questi mari agitati".
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