Bruno Bovo e Andrea Cavattoni sono sopravvissuti con un groviglio di pallottole in corpo. Vittorio Luise si è salvato perché l'orologio a cipolla sul panciotto ha deviato il proiettile. Toni Peretto ha diviso pane e salame prima di essere ucciso. Walter Saudo ha provato a far ragionare i tedeschi prima di essere falciato dalla raffica. Ottorino Bovo ha raccolto morti e feriti. Carolina Zenoni ha visto uccidere il suo ragazzo con un colpo di pistola alla testa.

Sono queste alcune delle storie raccolte dal giornalista e scrittore Luca Fregona in Italiani Kaputt. La strage degli operai (Athesia, 2025, Euro 18,00, pp. 160. Anche Ebook), volume pubblicato in occasione degli ottant’anni dalla strage del 3 maggio 1945 nella Zona industriale di Bolzano. Quel giorno, a guerra ormai conclusa, i soldati tedeschi in ritirata verso la Germania rastrellarono diciotto operai nelle fabbriche: una rappresaglia dopo alcuni scontri con i partigiani. Gli operai vennero allineati su due file davanti al muro dello stabilimento della Lancia e abbattuti con due raffiche di mitragliatrice sparate da una autoblindo. Dieci le vittime; i sopravvissuti, gravemente feriti, ne porteranno per sempre, nel corpo e nell’anima, le cicatrici. Cicatrici ancora più profonde perché a lungo il 3 maggio 1945 diverrà una data da dimenticare e la strage di quella giornata un evento tragico, ma da lasciar cadere nell’oblio.

La copertina del libro
La copertina del libro
La copertina del libro

A Luca Fregona chiediamo come prima cosa quale è stata la spinta a scrivere un libro su una vicenda così a lungo dimenticata:

«Questo libro nasce dalle testimonianze dei pochi sopravvissuti e delle famiglie delle vittime, che per generazioni si sono tramandate il ricordo di quanto accaduto. È una storia che volevo raccontare da molti anni con un libro dal taglio narrativo che mi permettesse, in qualche modo, di trasmettere anche le emozioni e le paure vissute dagli operai rastrellati il 3 maggio 1945 dai soldati tedeschi nelle fabbriche della Zona industriale di Bolzano. Passo ogni giorno davanti al muro dove vennero fucilati (il muro della fabbrica Lancia), davanti a quella targa che li ricorda come ‘vittime della ferocia nazista’. E, ogni volta, mi chiedo cosa abbiano pensato in quegli ultimi istanti, le ultime parole che si sono scambiati, le ultime cose che hanno visto. I morti del 3 maggio 1945 camminano ancora per queste strade così cambiate nel tempo, colpi di ruspa che hanno abbattuto le vecchie fabbriche per fare posto a capannoni, centri commerciali e palestre. Eppure, io quei morti continuo a sentirli e vederli».

Perché per lungo tempo questa tragica vicenda è stata rimossa?

«Mi sono sempre chiesto perché quella giornata fosse stata volutamente cancellata, per così lungo tempo, dalla biografia ufficiale di Bolzano. Quasi fosse un tabù impronunciabile. Una strage gratuita e infame, a guerra ormai finita, con gli americani a una manciata di chilometri. Erano scomodi, quei morti. Pesavano sulla coscienza di una città in macerie. Perché la rappresaglia tedesca era scattata fuori tempo massimo. Così come fuori tempo massimo erano stati gli scontri a fuoco tra partigiani e nazisti sconfitti in fuga verso il confine. Una giornata maledetta e sbagliata tra ordini contraddittori, furia germanica, e tatticismi geopolitici sul futuro dell’Alto Adige (Austria o Italia?). Quei morti sollevavano il velo sul collaborazionismo filonazista in Alto Adige, ma anche sugli errori del Comitato di Liberazione Nazionale. Nel caos riemergevano le faide rimaste in sospeso negli anni bui del fascismo e in quelli criminali dell’occupazione tedesca: la caccia ai soldati italiani, agli ebrei, i lager, le esecuzioni, i rastrellamenti, gli stupri».

In che modo i sopravvissuti e i familiari delle vittime hanno testimoniato la tragedia che hanno vissuto?

«Il rastrellamento nella Zona Industriale fu una ritorsione, dopo alcune sparatorie tra operai e colonne della Wehrmacht in transito. Fu condotto con estrema durezza da un reparto di paracadutisti tedeschi abituati a uccidere senza pietà. Per anni ho condotto una mia personale ricerca nel passato. Ho trovato testimoni e sopravvissuti. Li ho ascoltati e riascoltati. Ho scritto diversi articoli sul mio giornale, l’Alto Adige, e dato voce alle famiglie che chiedevano con forza che i caduti e i feriti del 3 maggio venissero finalmente ricordati dalla città. Bruno Bovo, uno dei sopravvissuti, mi disse che, finita la guerra, nessuno voleva ascoltare quella storia, così smise di raccontarla. Ma dentro di lui covava, non lo lasciava in pace. Ricordava quella mattinata minuto per minuto. Fino alla sua morte, nel 2018, ha continuato a chiedersi perché era sopravvissuto e altri no. I sopravvissuti mi hanno testimoniato la tragedia vissuta soprattutto con i loro corpi. Le cicatrici che Bruno Bovo, allora ultranovantenne, mi mostrò sulle braccia e sul torace. Il dito amputato da un proiettile. La mano ferma di Ottorino Bovo (solo omonimo di Bruno, non erano parenti), che soccorse i feriti e venne colpito da due pallottole. Volle rivedermi ancora una volta, poco prima di morire, perché gli promettessi che quella storia non andasse perduta. E ancora: l’orologio a cipolla che salvò la vita a Vittorio Luise, conservato con dedizione dal nipote. Gli occhi spenti di Carolina Zenoni, che dovette assistere all’esecuzione del suo ragazzo, e non si riprese mai più. Un contributo fondamentale è arrivato anche da figli, figlie e nipoti, che mi hanno messo a disposizione foto, documenti e il ricordo di quel giorno, tramandato di generazione in generazione».

Perché ha scelto un taglio narrativo per il suo libro?

«Perché ti porta lì. Davanti al muro della Lancia. Ho scelto di far raccontare quell’ora e mezza — dall’arrivo in fabbrica al rastrellamento, dall’esecuzione alla raccolta dei corpi — da cinque degli operai. Ogni volta il racconto riparte da zero, aggiungendo particolari biografici, dettagli sulla Bolzano dell’epoca, sulla vita prima e durante la guerra. La narrazione prosegue poi con altre storie che hanno sempre come sfondo la Zona industriale di Bolzano e quell'arco temporale, come una seconda strage evitata per un soffio poco lontano, dove i tedeschi avevano raggruppato alcune famiglie prelevate al Villaggio Lancia, una specie di dormitorio per i lavoratori. Il taglio narrativo mi ha dato la possibilità di immaginare e descrivere il 3 maggio con una libertà che a uno storico non è concessa. Ho spinto parecchio sulla narrazione, e questo può essere un rischio, ma credo di averlo fatto con onestà e, soprattutto, rispettando le testimonianze che mi hanno affidato i sopravvissuti, che oggi non ci sono più».

Perché è ancora importante parlare di vicende come quella del 3 maggio 1945 a Bolzano?

«Per me era importante che questa storia venisse pubblicato in occasione degli ottant’anni dalla Liberazione e dalla strage della Lancia. Il caso vuole che il libro esca in un momento storico in cui spirano di nuovo terribili venti di guerra, anche in Europa. Spero lo leggano i giovani, coloro che non hanno memoria diretta di cosa fu la Seconda guerra mondiale, e che magari assistono alle immagini dall’Ucraina, da Gaza o al massacro del 7 ottobre 2023 senza capire, come fossero davanti a un videogioco. Come ha detto più volte Primo Levi: ‘È accaduto, può accadere ancora’».

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