In cucina ha cominciato a 14 anni, oggi ne ha 47; ha un locale di proprietà ed è stata chef di molti artisti. E ce ne sono tanti altri ai quali vorrebbe proporre i suoi piatti.

Il suo sogno è creare un centro diurno nel suo agriturismo dedicato ai ragazzi disabili maggiorenni: “La categoria che quasi mai gode di spazi idonei, a parte il caso in cui vengano alloggiati in comunità a pagamento e in cui vivono stabilmente, per il resto a loro non pensa nessuno”. Renata Laria racconta a L’Unione Sarda progetti e sogni di una “chef patron” del suo locale (N’Uovo), a Cassolnovo, ma che pensa anche alla funzione sociale che può avere un mestiere come il suo. “Quando sono al lavoro cucino e basta, mentre fuori, nelle scuole o nei corsi ai privati o ai detenuti, parlo della mia personalissima idea di cucina”. E non disdegna quella sarda: “I malloreddus sono nelle mie lezioni di pasta fresca, mentre per i culurgiones spero di trovare un ogliastrino che mi insegni a chiuderli”.

Cucina che ha dedicato a molti vip: “I Maneskin, Claudio Baglioni, Enrico Nigiotti, i Subsonica, ed Ermal Meta quando ancora era uno sconosciuto. Ma anche ai detenuti”.

Come ai detenuti?

“Due esperienze molto belle. La prima in un carcere del Milanese. Il progetto era formare una squadra che preparasse i pasti all’interno della struttura. Tutti i mesi a rotazione il personale cambiava, quindi vigeva un generale disinteresse e si accumulavano situazioni difficili. Nelle celle poi potevano cucinare, quasi nessuno mangiava ciò che arrivava col carrello. Ho lavorato tantissimo sulla comunicazione, invitando i miei corsisti a fare il passaparola su questa nuova formula e il feedback è stato molto positivo. 1.200 pasti contemporaneamente non li avevo mai preparati prima nemmeno io, è stata una sfida con risultati ottimi”.

La seconda?
“È stato in un altro istituto del Pavese, sempre con detenuti selezionati. Quest’anno c’è stato il primo corso tutto al femminile, al momento sto seguendo quello solo maschile”.

Si occupa di altre attività?
“Dico sempre che faccio la contadina: produrre la verdura che uso nei piatti dà una spinta non da poco. Un sapore che si sente, che fa la differenza. Poi abbiamo vari animali, che segue mia sorella: cavalli, 4 asini che probabilmente sono sardi, piccoli e grigi, poi capre, oche, maiali, cani e gatti, galline, conigli e cavie. E Billy Elliot, che non sa di essere una pecora. Quando era più leggero saltava e faceva piroette, da qui il nome: è stato smarrito da un gregge l’anno scorso, forse aveva una settimana di vita, chi lo ha trovato me lo ha portato perché avevo una capra che stava allattando, era sera, era tutto chiuso, hanno pensato a noi. Ieri è arrivato un altro agnellino, ha tre giorni”.

La pecora "Billy Elliot" e l'ultimo agnellino arrivato all'agriturismo "N'Uovo" (foto concessa)
La pecora "Billy Elliot" e l'ultimo agnellino arrivato all'agriturismo "N'Uovo" (foto concessa)
La pecora "Billy Elliot" e l'ultimo agnellino arrivato all'agriturismo "N'Uovo" (foto concessa)

Non finirà in padella probabilmente…

“Assolutamente no, non cucino più l’agnello”.

Come ha iniziato la sua carriera?

“Con un corso di formazione professionale di due anni, subito dopo la terza media, e poi al lavoro in quello che all’epoca era un ristorante con una stella Michelin, parliamo degli anni Novanta. All’isola d’Elba per la stagione estiva e poi anche un giro della Russia in occasione di un evento nei distretti federali, itinerante. Le esperienze sono state tante, e queste sono quelle emotivamente più importanti”.

Come si diventa chef?

“Non tutti lo diventano. Non c’è una categoria di settore o un sindacato. Oggi è più un soprannome e non più un ruolo, questo mi fa arrabbiare. Per me è facile essere chef, sono solo io in cucina. Lo chef è il capo, certamente, ma soprattutto è il maestro, ha l’obbligo di trasmettere la conoscenza. Ma chi lo fa più?”.

Lei ha avuto un maestro?

“Sì, Antonio Creti, il mio primo insegnante a scuola. Il nostro è stato uno strano incontro: stavo curiosando nel laboratorio e lui mi si è avvicinato senza presentarsi e consegnandomi una frusta mi ha detto: ‘Questo sarà il tuo scettro’. Mi ha incantata. Oggi di me dice che sono ‘uno dei suoi orgogli’, e mi fa tanto piacere”.

Ha invece un “mito”?

“Gordon Ramsay, quello che in realtà ha influenzato tutto. È vero che emergeva il suo personaggio televisivo come uno che urlava, sbraitava ed era volgare, ma riusciva a semplificare ogni cosa, a risolvere il problema della puntata delle sue trasmissioni con la comunicazione, puntava sulla risoluzione dei problemi tra le persone, poi veniva il resto”.

Qualche curiosità sugli artisti che ha “nutrito”?

“Nigiotti, tra l’altro un gran signore e il più bello di tutti, ogni sera chiedeva l’infuso allo zenzero; Baglioni, e ho scatenato l’invidia di molte amiche, mi dava il bacino della buonanotte; ma in generale per tutti una dieta leggera e semplice: salmone, pesce, pollo, niente elaborazioni e piatti il meno pesanti possibile. Con qualche concessione occasionale come uno spezzatino o un brasato. Con Ermal Meta c’era anche la serata della pizza, lui e gli altri autori ne andavano matti”.

E i Maneskin?

“Con loro ho voluto osare. Non amavano il risotto, che è una delle specialità del mio territorio, la Lomellina. Erano più per la pasta o la lasagna, invece ho proposto un risotto allo zafferano. Un gran successo, me lo hanno poi chiesto altre volte”.

Stranezze?

“Mah, una sera – non posso dire chi – mi hanno chiesto hamburger e patatine…”.

C’è qualcuno per cui vorrebbe cucinare?

“Vasco Rossi, sono cresciuta con le sue canzoni, e Ligabue, che mi piace molto”.

Cosa preparerebbe?

“A Vasco un risotto con le ortiche, perché è quello che non ti aspetti che sia”.

Ovvero?

“Spesso siamo abituati a vedere il difetto di ciò che abbiamo davanti, non andiamo oltre. Ma basta essere disposti ad allargare gli orizzonti, a provare. Le ortiche sono un po’ una metafora”.

Per Ligabue?

“Un altro risotto ma al fumo”.

Sarebbe?

“Con una crema di melanzane, coltivate in pieno campo, affumicate. Non è un’invenzione mia, l’ho rubata ma personalizzata. La associo a Ligabue: entrambi all’apparenza sono una cosa e in realtà sono un’altra. Magari rimarrebbe stupito con questa ricetta delicatissima e un po’ poetica adatta a una delle sue canzoni, ‘Il peso della valigia’”.

Renata Laria, "patron chef"
Renata Laria, "patron chef"
Renata Laria, "patron chef"

Conosce qualche piatto della tradizione sarda?

“I malloreddus, che sono una delle specialità nelle mie lezioni di pasta fresca, e i culurgiones che però mangio e basta perché ancora non ho trovato un ogliastrino che mi insegni come si esegue la perfetta chiusura a spiga. Poi coltivo le patate, sarebbero perfette”.

La fregola o fregula?

“La cucino per me, con le arselle”.

Cosa pensa dei talent di cucina?

“Non mi piacciono. Con chi partecipa, soprattutto con i più giovani, e lo dico da insegnante, bisognerebbe essere più onesti, non dare illusioni su quello che è davvero lavorare in una brigata”.

E com’è?

“Non soldi, successo, realizzare il piatto più ‘in’ e poi nessuno conosce le basi: i brodi, i fondi di cottura, l’uso delle erbe aromatiche. Per fare un esempio: non sono contro la tecnologia, adesso si usa molto la cottura sottovuoto, ma non si sa come si sia arrivati lì, si è persa la cultura della cucina. Se mi propongono le zucchine a dicembre c’è qualcosa che non va”.

Un piatto di sua invenzione da 10 e lode.

“Quaglie alla liquirizia, nate in realtà come anatre, disossate, con un fondo di cottura aromatizzato alla liquirizia, in forno o in padella”.

Il segreto?

“L’amore, come sempre quando si cucina”.

Cos’è per lei il cibo? 

“È noi, noi siamo fatti di cibo. È una grande forma di rispetto verso noi stessi mangiare bene, io insegno a rispettare gli ingredienti, la natura degli ingredienti, per questo semplifico il metodo. Se un cavolfiore nasce coriaceo, dobbiamo comunque mantenere il colore, la natura, la consistenza. Ogni ingrediente deve essere protagonista, odio le accozzaglie”.

Cucinare è diventata una moda, perché secondo lei?

“Perché non c’è più la tradizione, le mamme non l’hanno più trasmessa ai figli. Oggi c’è una intera generazione che cucina e mangia non per nutrire anche lo spirito. Annusare una minestra quando aggiungiamo il sale e sentire come cambia il profumo è qualcosa che non si fa in tv, ma solo tra madri e figli, nonni e nipoti, fratelli e sorelle, insegnante e allievo”.

In questi giorni c’è la polemica sul fatto che non si trovi personale per la cucina e in sala, corrisponde a verità?

“Assolutamente sì. Il lockdown ha fatto la sua parte ma è anche vero che certe trasmissioni hanno aiutato, in negativo. Ai ragazzi non viene insegnato il senso del sacrificio, invece noi che abbiamo scelto questo lavoro lo sapevamo in partenza. A 14 anni quando potevo stare in cucina anche 18 ore ero felice, per me era la possibilità di sperimentare, non pensavo di sicuro allo sfruttamento ma alla mia crescita. È così che si diventa bravi. L’esperienza è fatta di tanto lavoro, eppure quando hai la passione non ne senti il peso. Succede un po’ in tutti i settori. O, almeno, dovrebbe essere così”.

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