Giorgio Bocca lo ha definito “un anarcoide, un russo (la madre era nata nella Russia zarista) mezzo pazzo ed indisciplinato”. Una sintesi felice per introdurre una delle penne più originali e meno classificabili del giornalismo italiano: Massimo Fini.

Per vent’anni (1970-1990) firma di punta dell’Europeo, Fini appartiene a quella ridotta schiera di giornalisti che tutti hanno letto e leggono, anche non condividendone il punto di vista. Soprattutto è uno di quei giornalisti - al pari del citato Bocca, di Pansa, di Biagi e di Montanelli - che con i suoi articoli ha saputo raccontare l’Italia meglio di mille saggi paludati. A dimostracelo è, una volta di più, il recentissimo "Il giornalismo fatto a pezzi” (Marsilio Editori, 2021, pp. 832, anche e-book), imponente volume che raccoglie l’attività di Fini come cronista, inviato e giornalista d’inchiesta a partire dagli anni Settanta del secolo scorso.

Un quarantennio di storia del nostro Paese, con i suoi protagonisti e le sue vicende tumultuose e spesso poco edificanti, riprende così vita grazie ad articoli che ci appaiono per nulla invecchiati nonostante alcuni risalgano a più di quattro decenni fa. Viceversa, ci mostrano uno spaccato ancora molto vivido di eventi e persone cruciali che hanno trasformato la nostra società dal punto di vista antropologico, sociologico, ma soprattutto culturale.

Vediamo scorrere in presa diretta le vicende della grande industria italiana, dalla Fiat all’Olivetti, passando per l’Alfa Romeo e le grandi concentrazioni editoriali nate negli anni Ottanta del Novecento. Sentiamo raccontare dalla viva voce dei protagonisti drammi come il terrorismo, la droga. Ritroviamo i grandi cambiamenti della società: la crisi della coppia tradizionale, il femminismo, le prime inchieste sul mondo dell’omosessualità. Poi ci sono gli incontri di Fini – attraverso interviste oppure ritratti molto godibili ed equilibrati - con i grandi protagonisti del Novecento come Aldo Moro, Gianni Agnelli, Giangiacomo Feltrinelli per arrivare a Vittorio De Sica e Anna Magnani.

La copertina del libro
La copertina del libro
La copertina del libro

Si chiederà qual è il senso di un’operazione di riproposta di pezzi che appartengono a un mondo, quello dell’Italia novecentesca, che oramai non esiste più. A un’obbiezione come questa possiamo rispondere in molti modi. Per prima cosa si tratta di articoli molto belli da leggere, scritti da un professionista che concepisce la scrittura giornalistica come qualcosa che appartiene al lettore e deve quindi rispettarlo fino in fondo. Niente fumo negli occhi, quindi, niente arzigogoli letterari per impressionare e non far capire. La scrittura di Fini è viceversa nuda, schietta, onesta. In secondo luogo, Fini ci trascina a un’epoca in cui il web non ci portava il mondo in casa, ma dovevi percorrerlo in prima persona per conoscerlo, pedibus calcantibus come dicevano gli antichi, cioè solcando a piedi la strada.

Come affermava non a caso Nino Nutrizio, direttore de La Notte, giornale del pomeriggio da tempo scomparso dalle edicole, il giornalismo “è un mestiere che si fa prima coi piedi e poi con la testa” e Fini era fedele a questa massima. Troppa testa, inoltre, rende le cose eccessivamente razionali e non si fa buona cronaca, né inchieste come Dio comanda se si pensa troppo. Infine, cosa più importante di tutte, se come affermava Benedetto Croce “la Storia è il passato visto con gli occhi del presente” gli articoli di Fini ci possono aiutare a capire cosa rimane di quelle stagioni, di quei protagonisti, delle speranze, illusioni e delusioni di quelle generazioni della seconda metà del Novecento.

Se vogliamo capire l’Italia e soprattutto gli italiani di oggi "Il giornalismo fatto a pezzi” ha le carte in regola per farci da guida, per sorreggerci come un buon manuale di scuola, di quelli in cui i fatti e le persone continuano a essere più importanti delle opinioni, dei giudizi e soprattutto dei commenti.

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