Il generale Roatta e il passato rimosso del fascismo
Lo storico Davide Conti indaga una delle figure emblematiche del Ventennio fascistaPer restare aggiornato entra nel nostro canale Whatsapp
«In Italia sino al 25 luglio c'erano 45 milioni di fascisti; dal giorno dopo, 45 milioni di antifascisti. Ma non mi risulta che l'Italia abbia 90 milioni di abitanti». Così, con sarcasmo e una certa dose di cinismo, il leader britannico Winston Churchill era solito commentare, all’indomani della caduta del fascismo, la condizione dell’Italia, un Paese entrato in guerra nel 1940 al grido mussoliniano di “Vincere!” e pronto dopo soli tre anni a dimenticare tutto il passato, cancellando ogni tipo di colpa nel conflitto.
Non a caso, nella Conferenza di Pace di Parigi del 1946, tutte le responsabilità della disfatta vennero infatti attribuite esclusivamente a Mussolini, ai gerarchi e a Vittorio Emanuele III. Una volta eliminati i primi negli ultimi giorni della guerra ed esautorata la monarchia con il referendum del 2 giugno, l'Italia poteva quindi riacquistare la sua presunta integrità politica e morale usando la Resistenza, opera di una minoranza, come alibi per assolversi dalle colpe del Ventennio.
Naturalmente le cose non andarono in questo modo semplicistico e autoassolutorio. Semplicemente alla fine del conflitto si preferì per opportunismo, convenienza, realismo fare il meno possibile i conti con il passato. Un esempio di quanto stiamo raccontando ci viene offerto dallo storico Davide Conti che nel suo ultimo lavoro intitolato "Il generale Roatta” (Salerno Editrice, 2025, pp. 248) esplora una delle figure emblematiche della mancanza di soluzione di continuità tra fascismo e democrazia.
Capo del Servizio informazioni militari (SIM) dal 1934 al 1939, nella guerra civile in Spagna Maria Roatta guidò il Corpo truppe volontarie italiane al fianco di Franco. Addetto militare a Berlino nel 1939, fu poi promosso capo di Stato Maggiore del regio esercito. Dal 1942 al comando della II Armata italiana in Croazia, ordinò soppressioni e deportazioni di civili e partigiani jugoslavi. Caduto il fascismo fu nominato dal governo Badoglio capo di Stato Maggiore. L’8 settembre 1943 fuggí da Roma con il re. Primo nome della lista dei presunti criminali italiani consegnata dal governo jugoslavo alle Nazioni Unite, Roatta non rispose mai in tribunale della sua condotta nei Balcani. Processato per le attività del SIM, tra cui l’omicidio dei fratelli Rosselli, scappò in Spagna prima della condanna. L’amnistia del 1946 e il proscioglimento del 1948 lo resero libero. Ma come fu possibile tutto questo?
In realtà il “caso Roatta” fu solo uno dei tanti dato che nel dopoguerra si fece transitare tutta la classe dirigente dal fascismo alla repubblica senza colpo ferire: serviva normalizzazione, stabilità, i conti con il passato avrebbero posto domande imbarazzanti per molti e aperto scenari imprevedibili. E così magistrati, intellettuali, giornalisti, burocrati, generali, prefetti, questori, professori… tutti mantennero posto. Con il paradosso di ritrovare, ad esempio, un magistrato come Gaetano Azzariti, nel 1938 presidente del Tribunale della razza, nel 1957 presidente della Corte Costituzionale. Oppure con un uomo come Marcello Guida, che nel 1939 è direttore del carcere di Ventotene dove sono detenuti gli antifascisti e nel 1969 diventa questore di Milano.
Il “caso Roatta” fu quindi solo uno dei tanti emblemi della transizione italiana rapida dal fascismo alla democrazia e di come la “continuità dello Stato” pose una pesante ipoteca sull’atto di nascita della Repubblica. Una ipoteca che pesa ancora oggi perché non fare i conti con il passato significa che quest’ultimo non diventa mai storia. Continua a essere presente, ingombra la vita della nostra nazione come dimostrano le polemiche ricorrenti sull’antifascismo, sulle piazze del 25 aprile, sulle foibe, sulla Giornata della Memoria, sui tragici eventi del confine nordorientale, sul saluto romano. Polemiche sterili, ma che dimostrano come la nostra democrazia sia rimasta immatura.