Un grande testo sulla memoria, sull'amicizia e sull'amore per la propria terra. Così, in poche parole possiamo riassumere “Il figlio del fisarmonicista” (21lettere, 2023, pp. 544, anche e-book) di Bernardo Atxaga, una delle voci più autorevoli della letteratura basca e spagnola del nostro tempo.

Il volume, infatti, ripercorre le vicende della Spagna e dei Paesi baschi nel corso del Novecento attraverso le storie di due grandi amici, Joseba e David, le loro passioni, le loro scelte, il loro legame inestinguibile con la patria.

All’inizio del racconto li ritroviamo alla fine della loro lunga amicizia. David – che da ragazzo veniva identificato come il figlio del fisarmonicista dato il lavoro del padre – ha lasciato dopo la sua morte un quaderno, una sorta di diario intimo e di racconto personale delle vicende politiche del suo Paese. Lo scritto spinge Josepa a ripensare al passato: ai tempi andati dell’infanzia, poi dell’adolescenza e dell’età adulta, nel paese basco di Obaba.

La copertina dell'e-book
La copertina dell'e-book
La copertina dell'e-book

I ricordi fanno riemergere gli anni duri della dittatura franchista, poi la fascinazione per il separatismo basco, il ritorno della democrazia e l'orrore del terrorismo dell'ETA. Lo scritto diventa modo per rievocare la storia, trovando una verità, seppur individuale e parziale, perché solo un testo scritto ha questa potenza come Atxaga afferma rievocando uno degli episodi che tornano vivi nella memoria di Josepa: «Quando eravamo in carcere, il detenuto comune responsabile dell’infermeria gli chiese un giorno per quale motivo scriveva delle storie. ‘In qualche modo bisogna scriverla, la verità’, aveva risposto Joseba. Il detenuto non era rimasto molto convinto. ‘Io credo che il modo migliore sia quello diretto’, rispose. Joseba si mise a ridere e gli diede una pacca sulla spalla. ‘Te lo dico davvero, collega. È più facile che un prigioniero passi dal buco della serratura e si dia alla fuga, piuttosto che un mortale riesca a dire la verità nel modo che dici tu’».

Quello che Josepa si trova però a rievocare è soprattutto l’intreccio tra grande storia e vicende personali, come il momento difficile in cui lui e il figlio del fisarmonicista si erano trovati fianco a fianco con giovani che sceglievano la clandestinità in nome della libertà del popolo basco. Il momento in cui gli ideali lasciavano il campo alle armi, alla violenza, al sangue dei nemici per le strade in risposta ad altra violenza e alle prevaricazioni del regime franchista. Di fronte alla deriva terroristica i due amici – è Bernardo Artxaga per bocca loro – scelsero una via diversa. Maturarono la convinzione che affrancarsi e far emergere l’anima e l’identità basca era un processo che doveva partire dalle radici culturali più profonde e dalla lingua. I baschi esistevano, erano un dato di fatto accertato ed esistevano per le loro origini, la loro cultura, il loro idioma. Il resto era solo violenza e anche la lotta politica perdeva significato nel momento in cui abbandonava ogni tipo di etica e di pietà in nome degli ideali. La scelta non poteva essere che quella di rifiutare le armi e il sangue in nome di sentimenti più alti e positivi. E la scelta andava fatta subito perché come scrive Atxaga nel libro parlando di uno dei compagni di lotta di David e Josepa: «Non avrebbe esitato, perché sapeva, senza averlo letto da nessuna parte, che il tempo non passa invano; che gli abbracci che non ci siamo dati in questo mondo non li daremo più nella tomba».

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