Il Colony di Gerusalemme, «un hotel in prima linea»
Francesco Battistini racconta la straordinaria storia di un luogo d’incontro tra ebrei, musulmani e cristianiPer restare aggiornato entra nel nostro canale Whatsapp
C’è un luogo, l’American Colony di Gerusalemme, che è sempre stato sulla prima linea del conflitto arabo-israeliano. Nato quasi 150 anni fa nella vecchia casa di un pascià, dimora d’una piccola colonia di presbiteriani americani, il Colony ha sempre cercato d’essere un luogo di neutralità, di dialogo, d’incontro fra cristiani, ebrei, musulmani.
Francesco Battistini, inviato speciale al Corriere della Sera, ci racconta la storia di questo albergo fuori dal comune nel suo Jerusalem Suite (Neri Pozza, 2024, pp. 432, anche e-book). Una storia fatta di personaggi, eventi, emozioni.
Fu un lenzuolo del Colony, usato come bandiera bianca, a sancire la fine della dominazione ottomana. Qui venivano Lawrence d’Arabia a rifugiarsi e Churchill a ridisegnare il Medio Oriente, Selma Lagerlöf a scrivere il suo romanzo da Nobel e Mark Twain a riposarsi. Nel 1948 da questi tetti si sparavano arabi e coloni ebrei. Durante le guerre dei Sei giorni e del Kippur in questa reception bivaccavano i giornalisti di tutto il mondo. Il Colony è ancora oggi una piccola Palestina nella Gerusalemme occupata, dove molti leader palestinesi non mettono piede, e insieme un pezzo d’Israele che pochi politici israeliani frequentano. Una terra di nessuno e di tutti.
Questi sono alcuni dei motivi per cui Francesco Battistini ha deciso di dedicare un libro a questo luogo in prima linea, come ci conferma direttamente:
«Nel 2002, il Corriere mi mandò a seguire la Seconda Intifada. Arrivavo da Kabul e Gerusalemme mi sembrava un lusso. Invece, uccisero subito un fotoreporter con cui lavoravo e capii che le cose erano molto più complicate. Dopo il 7 Ottobre, molti hanno perso il filo del più lungo conflitto dell’ultimo secolo. Vale anche per me: più ci vado, meno lo capisco. Ma non si possono comprendere Gaza o il Libano, se non si sa che cos’è successo prima. La storia di questo albergo è un modo per raccontare 140 anni della storia di Gerusalemme: il ritorno degli ebrei, la Nakba palestinese, la nascita d’Israele, 21 guerre, 52 piani di pace, 800 risoluzioni Onu…».
Cosa simboleggia, a suo parere, il Colony?
«Il Colony nasce come un esperimento diverso di pace. Una comunità di protestanti un po’ fanatici, venuti dall’America ad aiutare i poveri, che si trasforma in un hotel e in un luogo d’incontro fra ebrei, musulmani e cristiani, finendo al centro di tutte le vicende più importanti. Per il Colony passa la Linea Verde che divide in due Gerusalemme. Nella Guerra dei Sei giorni, è dal Colony che parte l’occupazione militare israeliana. Di fianco al Colony s’insedia l’Olp di Arafat, in una sua camera si negozia per la pace di Oslo, e qui ci si rifugia nell’era dei kamikaze. Da quest’hotel sono passati tutti: Churchill che ridisegnò il Medio Oriente, Lawrence d’Arabia che guidava la rivolta beduina, Rudolph Hess che progettò la Shoah. E Golda Meir, Bob Dylan, Jimmy Carter, Tony Blair, spie, pacifisti, faccendieri».
Come è considerato dai palestinesi?
«Sta nella parte araba di Gerusalemme ed era la casa d’un pascià. Qui, per molto tempo i palestinesi hanno imparato un lavoro, si son fatti curare nell’infermeria. Il personale è assunto rispettando tutte le confessioni, ma chi ci lavora è in maggioranza palestinese. I moderati lo rispettano, gli estremisti non ne amano il fascino occidentale».
E dagli israeliani?
«La destra lo detesta, lo chiamava ‘Hotel Olp’, e ha pure tentato di chiuderlo. Gli altri lo tollerano. Dopo il 7 Ottobre è cambiato tutto, però, e pochi amano quel progetto di dialogo su cui il Colony è stato costruito».
Durante le intifade, il Colony era una fortezza sicura: un rigido statuto fissa le quote “etniche” dei camerieri che vi possono lavorare, e per questo nessuno l’ha mai attaccato. Chi ci lavora all'interno riesce a creare quella convivenza che invece la Palestina non conosce da tempo?
«In parte. Le regole vengono rispettate: si parla solo inglese, non si celebrano né il Ramadan, né lo Shabbat, non ci sono crocifissi, è vietato parlare di politica. Ma non sempre si riesce. Ogni tanto viene allontanato qualche cuoco fanatico. E le storie del libraio Munther o della gioielliera Claire che racconto nel libro, un intellettuale e una pacifista costretti ad andarsene, sono emblematiche di quello che sta succedendo nel Paese. Il Colony ha sempre accompagnato gli alti e i bassi del processo di pace. Ora è un punto bassissimo, l’hotel è vuoto da un anno. E rischia di fallire, com’è fallito, finora, qualunque tentativo di pace tra israeliani e palestinesi».