“Questo libro è un viaggio nel grande paradosso di una sfida planetaria. Vi racconto una faccia della Cina troppo nascosta e inquietante, che l’élite occidentale ha deciso di non vedere. Rivelo il gioco dei corsi e ricorsi tra due superpotenze che si studiano e si copiano a vicenda. E spiego il nuovo Grande Esperimento Americano, che tenta di invertire il corso della storia prima che sia troppo tardi”. In queste poche righe che chiudono l’Introduzione troviamo tutto il senso dell’ultimo saggio di Federico Rampini “Fermare Pechino” (Mondadori, 2021, pp. 324), un volume che prova spiegarci perché solo provando a comprendere e facendo nostre alcune virtù della Cina possiamo salvare l’Occidente da una prevedibile, ma non auspicabile – almeno per chi scrive – egemonia cinese.

A Federico Rampini, prendendo spunto dal titolo del saggio, chiediamo perché è importante provare a fermare Pechino:

“Voglio chiarire un’ambiguità del titolo. Nel lunghissimo periodo è impossibile fermare Pechino: la Cina è la nazione più popolosa del mondo, un miliardo e 400 milioni, erede di una civiltà che ha 3.500 anni di storia, per gran parte dei quali è stata la più ricca e la più avanzata del pianeta. Però nel breve periodo, quello che coincide con il nostro arco di vita, qualcosa possiamo fare per tracciare delle linee rosse, contenere il danno che questa Cina può infliggerci con le sue politiche espansionistiche e il suo progetto egemonico. Questa Cina contemporanea, cioè il regime comunista, ha solo cento anni di storia, ancor meno della liberaldemocrazia americana, e in questo secolo ha già attraversato fasi di instabilità, crisi violente. Dobbiamo capirla, studiarla, prepararci a prendere contromisure”.

La copertina del libro
La copertina del libro
La copertina del libro

Come si può fare per provare a fermare la Cina?

“Intanto bisogna conoscerla. Il livello di ignoranza degli occidentali sulla Cina è preoccupante. Molti continuano a fermarsi alla superficie, a giudicarla con stereotipi semplici, positivi o negativi che siano. Frasi fatte, formulette, pregiudizi non aiutano, anzi ci fanno perdere tempo prezioso. Non aiuta il fatto che la stessa Cina sotto Xi Jinping si ripiega su sé stessa, diventa sempre meno trasparente, volutamente indecifrabile. Nel libro adotto vari stratagemmi, dalle mie conoscenze personali fino al cinema e alla letteratura di fantascienza, per scavare sotto la superficie. Per fermarla, il primo passo è una strategia delle alleanze che mobiliti tutti coloro che hanno qualcosa da temere dall’avanzata cinese. Qualcosa sta già cambiando, anche sulle regole del gioco della globalizzazione: è in corso un tentativo di retromarcia, dopo che il Covid ci ha dimostrato quanto sia rischioso dipendere dalla Cina per tanti prodotti essenziali”.

Chi in Occidente non sta facendo nulla per arginare un possibile strapotere cinese?

“Ci sono tante lobby filo-cinesi. Dedico un capitolo intero alla più importante: i Trenta Tiranni del capitalismo americano. È un’immagine che prendo in prestito dall’antica Grecia: quando Sparta vinse Atene nel V secolo a.C., mise al comando della rivale sconfitta un’oligarchia di trenta tiranni. Governavano per fare i propri interessi e quelli Sparta, non per il popolo ateniese. I Trenta Tiranni del capitalismo americano hanno fatto affari d’oro in Cina e col regime di Pechino: da Apple a Goldman Sachs, da Boeing a General Motors, sono gli alleati oggettivi di Xi Jinping. In Europa la grande industria tedesca ha avuto un atteggiamento simile”.

Perché tante critiche all'Occidente e all'America e così poche verso la Cina?

“Nella sfida tra noi e loro, la nostra principale debolezza è proprio questa: siamo divisi tra noi; e partecipiamo ad una demolizione collettiva della nostra autostima. Lo racconto soprattutto nel paragone fra America e Cina. Negli Stati Uniti, dove sono tornato a vivere da quando lasciai Pechino (nel 2009), le polemiche più furiose sono contro l’America stessa. A destra c’è chi considera Joe Biden un usurpatore, un presidente illegittimo, e un pericoloso socialista. A sinistra ‘la meglio gioventù’, e l’establishment radical chic che comanda nelle università e nei media, descrivono l’America come l’Impero del Male, l’inferno del razzismo, della xenofobia, del sessismo e di ogni discriminazione. Dall’altra parte c’è una Cina dove almeno nel ceppo etnico maggioritario (gli Han, cioè 90% della popolazione) il nazionalismo è un vero collante, un cemento ideologico che unifica”.

Cosa ci può però insegnare il modello cinese?

“Tante cose, se lo guardiamo con lucidità. Xi è un autocrate pericoloso, colpevole di gravi abusi contro i diritti umani, e ha fatto cose orribili a Hong Kong, in Tibet, nello Xinjiang. Questo però non gli impedisce, ogni tanto, di fare cose giuste. Sta imprimendo una svolta di sinistra alla sua politica economica, prende di mira i monopoli di Big Tech, fa operazioni di antitrust a favore dei consumatori e dei lavoratori, punta a ridurre le diseguaglianze. Biden in un certo senso cerca di imitarlo. Così come Xi rivaluta Mao, per Biden il modello è Roosevelt”.

L'Occidente si può salvare, a suo parere?

“Purché abbia l’umiltà di riconoscere alcuni valori dell’Oriente. Non quelli del dispotismo e dell’autoritarismo. Ma al di là della congiuntura politica che da cent’anni vede un regime comunista al potere a Pechino, dobbiamo saper vedere i valori del confucianesimo, condivisi da paesi democratici come il Giappone, la Corea del Sud, Taiwan. Noi occidentali viviamo dagli anni Sessanta in un’Età dell’Io, egocentrica e narcisista. Vediamo solo diritti, abbiamo un’idea sempre più vaga dei doveri. La forza delle società confuciane sta in un’idea del bene comune che supera l’individualismo esasperato. Quest’anno, nessuno se n’è accorto, ma la Corea del Sud ha superato per ricchezza l’Italia, pur essendo una nazione più piccola. Rispetto delle regole, senso del dovere, importanza dell’istruzione, meritocrazia. Altro che Squid Games, è alla Corea reale che dovremmo dedicare più attenzione: negli anni Cinquanta era più povera della Libia e della Siria”.

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