Nei primi anni Sessanta dell’Ottocento, le pessime condizioni di vita del Mezzogiorno inasprirono il fenomeno del brigantaggio, che già durante la dominazione borbonica si era manifestato come lotta contro le ingiustizie sociali messe in atto dalla politica vessatoria dei governanti. Così, dopo l’Unità, il Mezzogiorno precipitò in una sanguinosa guerra civile. Da un lato, i ribelli si opponevano alle nuove istituzioni con violenza: teste mozzate esposte come trofei, stupri, soldati evirati. Dall’altro, lo Stato rispose con rastrellamenti, incendi di villaggi e fucilazioni sommarie. Fu quella che è passata alla storia come la “lotta al brigantaggio”.

Come ci racconta, però, lo storico Gianni Oliva nel suo ultimo saggio intitolato La prima guerra civile (Mondadori, 2025, pp. 228, anche e-book) etichettare tutti i ribelli come “briganti” è un errore, che produce una grave lacuna nella storiografia ufficiale.

Ciò che accade nel Mezzogiorno dopo il 1860 non fu né un semplice fenomeno di brigantaggio (come l’ha definito la storiografia liberale) né una rivolta sociale come nella visione degli anni Settanta del Novecento del “bandito ribelle alle ingiustizie”. Si trattò di uno scontro complesso contro il nuovo Stato unitario, in cui le rivolte contadine fecero da elemento scatenante e in cui bande di briganti, spesso sostenuti da agenti borbonici e papalini, furono il braccio armato. Guerra civile, dunque, fra chi voleva l’unificazione nazionale e chi, per ragioni diverse, la contrastava.

contentid/81196639-2fa3-4168-86e5-6713050130e4
contentid/81196639-2fa3-4168-86e5-6713050130e4

Come si arrivò a tutto questo? L’Unità nazionale non portò miglioramenti tangibili nella vita delle masse contadine ma, al contrario, ne aumentò la frustrazione: già estranei al movimento risorgimentale per condizioni sociali, economiche e politiche, i contadini videro le loro esigenze e le loro richieste ancora una volta accantonate da una classe dirigente sorda a tutto ciò che non coincideva con i propri interessi. Essa, infatti, era profondamente ostile a quella riforma agraria che avrebbe permesso ai contadini sia di migliorare le proprie condizioni di vita sia di avvicinarsi al nuovo Stato italiano. La questione della terra era solamente una delle rivendicazioni della classe contadina: ad essa si univa la protesta contro la miseria e contro le disposizioni del nuovo Stato come il pesante sistema fiscale e la leva militare obbligatoria, che toglieva alle famiglie la forza-lavoro indispensabile per sopravvivere. A questi elementi va poi sommato il sostegno politico che i legittimisti borbonici e la Chiesa cattolica davano al brigantaggio, il cui obiettivo comune era un ritorno al potere della dinastia borbonica o quantomeno rendere il più difficile possibile l’assestamento istituzionale del nuovo Stato. Il brigantaggio interessò quasi tutte le regioni meridionali e terminò solamente dopo una sanguinosa azione repressiva dello Stato che lasciò sul campo più morti delle tre guerre d’Indipendenza. Agli ordini del generale Enrico Cialdini, infatti, un corpo di spedizione di oltre 100 000 uomini fu impegnato per oltre due anni per soffocare i “briganti”. Pacificata con la forza la rivolta, non era stato affatto risolto il problema fondamentale alla base di questa grande e generalizzata ribellione: la povertà e l’oppressione sociale dei contadini del Mezzogiorno d’Italia. Anzi, per “domare” il Sud la classe dirigente nazionale fece l’accordo con la parte peggiore della classe dirigente meridionale, quella che si era già opposta ai tentativi di modernizzazione fatti dai re borbonici. Quell’accordo ha pesato nei decenni successivi e pesa, vistosamente, ancora oggi negli squilibri tra Nord e Sud.

© Riproduzione riservata