Fino a poco più di due mesi fa un conflitto in Europa sembrava a tutti impossibile. Pensavamo, infatti, di avere relegato per sempre la guerra nei libri di storia. Insomma, il conflitto in Ucraina è la catastrofe che non ci aspettavamo. È un dramma dagli esiti imprevedibili che già stravolge la nostra vita quotidiana e che probabilmente segnerà la storia dei prossimi anni. La guerra in Ucraina è una immensa trincea che ci riporta agli incubi dei bombardamenti indiscriminati, delle fosse comuni, delle città assediate. Mariupol come Aleppo. Kiev come Sarajevo.

Oramai da più di due mesi proviamo a capire quello che sta succedendo, domandandoci sempre più spesso se tutto fosse realmente imprevedibile. Come mai non ci siamo accorti, in questi anni, d’una miccia accesa che stava per far esplodere la Terza guerra mondiale? E perché abbiamo lasciato che Vladimir Putin diventasse un pericolo per tutta la comunità internazionale?

L’inviato del Corriere della Sera Francesco Battistini, che si occupa di Ucraina da anni, ha vissuto sul campo e giorno per giorno l’escalation di questa crisi. Ha seguito i mesi delle truppe russe che si ammassavano al confine, della paura che cresceva nel Donbass, della diplomazia inconcludente. Viaggiando in lungo e in largo per tutta l’Ucraina, da Leopoli a Kharkiv, da Chernobyl a Odessa, ha raccontato quasi quotidianamente un fronte che di ora in ora si scaldava. Fino al 24 febbraio, l’inizio dell’invasione. Ora questo racconto - e molto altro ancora - è confluito in Fronte Ucraina (Neri Pozza, 2022, Euro 18, pp. 272. Anche Ebook), un libro che è fondamentale leggere se vogliamo capire quello che sta accadendo in Europa.

Da dove arriva questa guerra?

“Il 24 febbraio è stato l’Undici settembre dell’Europa. E come per l’Undici settembre non possiamo pensare che tutto sia cominciato solo quel giorno. L’invasione è iniziata almeno un anno prima, non solo per la questione della Nato: tutto partì quando il presidente ucraino Zelensky promulgò la legge che colpiva gli oligarchi ucraini amici di Putin, a cominciare da quel Medvedchuk che nelle scorse settimane abbiamo visto in divisa, stravolto, catturato dalle truppe di Kiev e usato per un possibile scambio di prigionieri. Quella legge colpiva Medvedchuk, amico personale dello Zar, proprietario di tv filorusse e d’un partito pagato da Mosca. Qualche giorno dopo, nella disattenzione generale, Putin decise di schierare tremila parà al confine con l’Ucraina. Era il febbraio 2021, il vero inizio dell’invasione. Poi, si sa, la guerra di oggi durava da otto anni ed è figlia della rivolta di Maidan nel 2014, nipote della Rivoluzione arancione nel 2004 e pronipote dell’indipendenza del 1991: uno strappo da Mosca che fu il seguito della caduta del Muro. Il fronte Ucraina, dunque, non s’è aperto nel 2022”.

Perché qui in Occidente siamo stati così spiazzati dal conflitto nonostante i segnali che arrivano dai confini tra Russia e Ucraina?

“Perché noi europei abbiamo sempre considerato l’Ucraina, e in fondo anche il rapporto con la Russia, un tema perlopiù economico. Ci importava del gas, dei nostri investimenti, delle banche, al massimo d’importare qualche badante dalle regioni più povere. Abbiamo lasciato che la politica di Kiev la decidessero gli americani: quando scoppiò la rivolta di Maidan nel 2014, e la piazza rovesciò il regime filorusso, una diplomatica Usa fu intercettata mentre diceva che gli europei potevano ‘fottersi’. Ci siamo ostinati anche a credere che Putin fosse un interlocutore come gli altri. L’annessione della Crimea fu una violazione inaudita del diritto internazionale, eppure si facevano spallucce: io nel 2014 ero a Sebastopoli e ricordo i cantanti italiani che venivano a celebrare ‘l’indipendenza’ in concerti pagati dal Cremlino, gli europarlamentari della Lega a ‘certificare’ la trasparenza del referendum-farsa, uno scippo mascherato da consultazione popolare, coi soldati russi che presidiavano i seggi”.

Com’è la guerra che minaccia l'Europa dal di dentro per lei che ci si è trovato in mezzo?

“Una classica guerra d’invasione. Con due eserciti contrapposti. Molto diversa da quelle asimmetriche dell’Afghanistan e della Siria, o da quella di coalizione vista in Iraq. Non so se per scelta o per necessità, i russi sono entrati in Ucraina col freno a mano tirato: non è così – senza chiudere gli approvvigionamenti, senza colpire le centrali elettriche, senza tagliare le vie d’accesso - che s’attacca una metropoli come Kiev. Putin ha tentato il blitz per tagliare la testa del nemico ed eliminare Zelensky. Ora mi pare stia ripiegando di nuovo su una guerra che è la continuazione della precedente, nel Donbass e a Sud, ma dieci volte più aggressiva”.

Quanto è divisa al suo interno la società ucraina?

“Fino al 24 febbraio, avevamo due popoli e uno Stato. E una classe politica spaccata, corrotta, che rifletteva lo stesso clima da guerra civile. Il predecessore di Zelensky, Poroshenko, fino a gennaio viveva esiliato in Polonia perché inseguito dalle inchieste che lo stesso Zelensky gli aveva scatenato contro. E i due leader si lanciavano accuse tremende. Adesso vediamo un Paese unito nella resistenza. Anche i russofoni sono diventati antirussi, e questo per Putin è un problema inatteso. Mosca forse ha sottovalutato quanto pesassero sull’opinione pubblica ucraina, anche su quella filorussa, la stanchezza e i morti d’otto anni di guerra nel Donbass. Oggi possiamo immaginarcelo, ma in realtà non sappiamo con certezza che cosa potrebbe uscire da un referendum sull’annessione a Mosca, se a davvero lo si riuscisse a organizzare a Kherson e nelle città russofone, naturalmente sotto una supervisione internazionale e con tutte le garanzie necessarie di trasparenza. Non abbiamo nemmeno idea di che Ucraina troveremo, dopo la guerra”.

Lei termina la sua prefazione con una poesia di Clemente Rebora che descrive l’angoscia dei soldati durante la Grande guerra, e con l'invito a “comprarci per tempo un ombrello”. Di che tipo di ombrello abbiamo bisogno?

“Ormai per l’Ucraina è andata così. Io penso alle crisi future. A tutte queste ferite del mondo che regolarmente ignoriamo, finché il sangue e il dolore non si riversano pure sulle nostre vite. Chi sa che cosa sta accadendo nello Yemen, in Eritrea o in Congo? Chi prende davvero posizione, adesso, sui torturati in Cina o in Arabia Saudita? C’è voluto il caso Regeni, perché aprissimo gli occhi sull’Egitto di Al Sisi. Come i soldati della poesia di Rebora che agonizzano nelle trincee, aspettiamo sempre e solo che le urla di chi soffre non ci raggiungano più. Ma non funziona così: il silenzio della morte non corrisponde mai al silenzio della pace”.

La copertina
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