In un angolo remoto dell’estremo nord, tra le gelide acque dell’Atlantico, si cela una terra enigmatica, un luogo di fuoco e ghiaccio dove il Sole non conosce il tramonto. È la leggendaria isola di Thule, menzionata per la prima volta dall'esploratore greco Pitea, salpato da Marsiglia intorno al 330 a. C. Da allora, il fascino di questa terra sconosciuta ha attratto generazioni di navigatori ed esploratori. Alcuni di loro, inseguendo la mitica Thule, sono giunti ancora più a nord, in una terra oggi aspra, perché quasi completamente coperta dai ghiacci, ma che un tempo era coperta di prati verdeggianti: la Groenlandia.

Gli europei colonizzarono, infatti, l’isola per la prima volta probabilmente intorno all'anno Mille, in un periodo in cui l'Europa godeva di un clima particolarmente favorevole. I vichinghi danesi, alla ricerca di nuove terre, trovarono una Groenlandia di prati e arbusti, che chiamarono appunto Grønland, “Terra verde”. Gli Inuit, la popolazione nativa locale, chiamava quella che è la più grande isola del mondo, Kalaallit Nunaat, "Terra degli uomini". Alla fine del Medioevo, con il ritorno a temperature più rigide e con la scomparsa della maggior parte dei prati, la colonia danese fu abbandonata, e rimasero solo alcuni insediamenti Inuit. Nel 1721, la Groenlandia divenne parte del regno danese, rimanendo una contrada isolata, in buona parte inesplorata, che pareva non interessare a nessuno. Insomma, erano molto lontane le bellicose dichiarazioni di Donald Trump, che recentemente ha ipotizzato una annessione del territorio groenlandese agli Stati Uniti.

Solo nei primi anni del Novecento il governo della Danimarca decise di insediarvi una colonia commerciale che non caso assunse il nome mitico di Thule. È da qui che, nel mese di aprile del 1912, il grande esploratore danese Knud Rasmussen, accompagnato da un cartografo e due cacciatori inuit, si mise in viaggio a bordo di slitte trainate da cani. Ed è da qui che cominciò la grande avventura narrata in A Nord di Thule (Iperborea, 2025, pp. 256), volume che raccoglie il diario tenuto durante la sua traversata della Groenlandia da Rasmussen.

L’obiettivo della spedizione era documentare usi e costumi del popolo inuit, ma soprattutto mappare il canale di Peary, un braccio di mare che separa l’isola dal suo estremo Nord, da quel continente americano che già all’epoca – con Trump ancora molto in là da venire - avanzava pretese sulle terre groenlandesi.

La copertina del libro
La copertina del libro
La copertina del libro

La missione venne affrontata con entusiasmo, e il motto degli esploratori, “Viva la lotta per la vita!”, risuonò più volte di fronte alla natura vergine, tanto crudele quanto straordinaria. Questa landa aspra, che affamava cani e uomini, offriva al contempo panorami mozzafiato composti di luce, vento e ghiaccio, tanto da far scrivere a Rasmussen: «La Groenlandia è davvero la terra della diversità. Non appena la morte lascia la sua presa, inizia la vita». La calotta polare si presentava come un deserto bianco, un luogo in cui misurarsi con sé stessi, magari leggendo qualche pagina di Flaubert o I Promessi sposi di Manzoni al riparo degli igloo. Tuttavia, la sopravvivenza dei quattro viaggiatori dipese in gran parte dalle conoscenze degli Inuit, che Rasmussen raccolse meticolosamente, trasformando il suo diario in un prezioso documento etnografico.

Le storie narrate spaziano così da miti e leggende fondative a riti iniziatici, passando per tecniche di caccia e pesca, consigli su come rivestire le lamine da sci con pelle di tricheco e istruzioni per costruire un igloo. Così, tra i difficili problemi pratici di una spedizione a quaranta gradi sottozero e la scoperta di territori sconosciuti, Knud Rasmussen racconta le sue avventure attraverso lo sguardo del grande esploratore, facendo emergere la cultura e la spiritualità inuit e riconoscendo nella lotta per la sopravvivenza un valore non solo scientifico, ma anche etico e civile.

© Riproduzione riservata