Nel 1975 il grande poeta Eugenio Montale ricevette il premio Nobel per la letteratura. Durante la cerimonia di consegna del premio incentrò il suo discorso su una fondamentale domanda: «È ancora possibile la poesia?». 

La riflessione di Montale partiva dalla consapevolezza che l’arte stava diventando sempre di più oggetto di consumo nella società del benessere della seconda metà del Novecento. Ogni espressione artistica, compresa la poesia, stava perdendo la sua identità anche perché secondo il grande poeta i mezzi di comunicazione di massa, in particolare la televisione, erano sul punto ad annientare ogni possibilità di solitudine e riflessione.

A quasi cinquant’anni dal discorso di Montale ci ritroviamo in una società probabilmente ancora più antipoetica. Siamo, infatti, bombardati da una comunicazione veloce e roboante, sintetica perché frutto della fretta e della volontà di essere capiti immediatamente, senza fatica. Viviamo in un mondo dove dominano la tecnica e la finanza, dove ogni cosa deve avere un fine pratico, produttivo, deve poter essere monetizzato. “Carmina non dant panem” sostenevano già gli antichi, le poesie non fanno guadagnare pane, anzi spesso non fanno guadagnare affatto. E questo le rende quanto di più antimoderno ci possa essere al mondo d’oggi. Così anche a scuola oramai si pensa soprattutto a fornire competenze, abilità, skills per dirla riempiendosi la bocca d’inglese.

Eppure, di spazio per la poesia ce ne è ancora, perché di poesia c’è tanto bisogno proprio in un mondo come quello d’oggi, così pratico e proteso verso il risultato. La poesia continua a essere, come diceva il grande poeta inglese del primo Ottocento Shelley, «qualcosa di divino, il centro e la circonferenza della conoscenza, è ciò che comprende tutte le scienze e a cui tutte le scienze fanno riferimento». In una definizione di questo tipo si riconoscono – è quasi scontato dirlo - Nicola Crocetti, “l’editore dei poeti”, fondatore della rivista “Poesia”, che ha pubblicato migliaia di poesie di ogni angolo del globo, e Davide Brullo, poeta, fondatore della rivista avventuriera “Pangea”.

Al loro coraggio e alla loro abnegazione nei confronti di rime e versi si deve un lavoro probabilmente mai tentato prima: "Dimmi un verso anima mia” (Crocetti Editore, 2023, pp. 1260), una antologia della poesia universale abnorme e appassionata. Un volume, come scrive Davide Brullo nelle note introduttive, che non vuole essere semplicemente un libro, ma “un incendio, un atto d’amore”.

La copertina del libro
La copertina del libro
La copertina del libro

Un atto d’amore che vede riuniti componimenti che vanno dai Veda ai poeti odierni, dagli antichi inni egizi a Eugenio Montale, Seamus Heaney, Paul Celan, dai salmi biblici e da Saffo fino a Ezra Pound, Yves Bonnefoy e Mario Luzi. L’intento dei due curatori non è critico, tanto meno compilativo: si tratta di un salto nella meraviglia lirica di ogni paese e di ogni tempo, di un viaggio nella sorpresa e nello smarrimento. L’antologia mira, infatti, a essere una sorta di Mille e una notte della lirica mondiale.

Non è dunque lettura per gli “esperti”, ma per gli ispirati; per quelli che tra le maglie di un sonetto o di una canzone trovano un conforto di curiosità e la spinta per sondare la propria anima. La poesia, si sa, è un rischio e un antidoto: leggerla, oggi, un gesto di sorridente sovversione. Perché della poesia abbiamo bisogno per ritrovare la forza di suggestionare, di creare sentimenti elevati che scaccino nell’angolo più lontano lo scetticismo, il cinismo e, peggio di tutti, il nichilismo che ci circonda. Ne abbiamo bisogno per evadere dalla realtà senza dimenticarla, per lasciarci andare a sogni, illusioni e utopie che ci possono consentire di provare a rendere migliore il mondo in cui viviamo.

L’arte del poeta, infatti, è quella facoltà che può restituire giovinezza a un tempo, il nostro assediato dalle sue paure, dalle sue insicurezze. Come ha scritto nel saggio "Da una prigione” (pubblicato nel volume Di là dal cuore del 1984) lo scrittore Giorgio Bassani: «La poesia è delle anime vergini, degli angeli, di chi crede. Naturalmente noi non viviamo più all’età d’Omero, e quindi ci è difficile trovare qualcosa in cui credere. Ma ad ogni modo, per essere poeti bisogna tornare a una necessaria condizione d’ingenuità». Un’ingenuità giovane, anzi fanciullesca, perché la poesia aiuta il cuore e la mente a non invecchiare male. La poesia aiuta tentare e ritentare, anche quando il risultato non è sicuro, anzi soprattutto quando non è sicuro e tutto pare remare contro. Aiuta a guardare avanti, senza preoccuparci troppo delle inezie e ad accettare, con leopardiana consapevolezza “quanto il naufragar m'è dolce in questo mare”. Per questo del poetare ne abbiamo ancora tanto bisogno.

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