Ha lasciato Gavoi quando aveva 18 anni per andare a Cagliari all'Università, facoltà di Ingegneria elettronica.

Non sapeva che, tempo dopo, sarebbe arrivato in Antartide - per un programma PNRA (Programma Nazionale di Ricerche in Antartide) finanziato dal MIUR (ministero dell'Istruzione, Università e Ricerca) e coordinato dal CNR (Consiglio Nazionale delle Ricerche) per le attività scientifiche, e dall'ENEA (Agenzia Nazionale per le nuove tecnologie, l'energia e lo sviluppo economico sostenibile) per l'attuazione operativa delle spedizioni antartiche - e che lì avrebbe trascorso oltre un anno in condizioni decisamente estreme, con temperature esterne di circa 80 gradi sotto lo zero.

Marco Buttu, 41 anni, sposato con una ragazza di Ollolai, ha vissuto una delle esperienze più difficili per l'uomo. Insieme a lui, nella base Concordia Station, c'erano anche per buona parte del tempo altre 12 persone (di nazionalità italiana, francese e austriaca e con età varie fra i 23 e i 55 anni) che sono rimaste in mezzo al nulla dal novembre 2017 al dicembre 2018. Su questa esperienza è nato un libro, "Marte Bianco: nel cuore dell’Antartide. Un anno ai confini della vita", in cui l'ingegnere sardo racconta proprio le sue impressioni e quanto è stato complicato fare i conti con l'isolamento.

Partiamo dall'inizio, dai suoi studi.

"Ho scelto quella facoltà perché ero un appassionato di tecnologia e all'epoca era una laurea che offriva buoni sbocchi dal punto di vista lavorativo. Subito dopo sono andato in Svizzera per uno stage, a Losanna, e poi col programma Master & back sono tornato in Sardegna, all'Istituto nazionale di astrofisica che ha sede a Cagliari".

Quali finalità aveva la missione in Antartide?

"Come tutte le missioni si tratta di ricerche scientifiche. Io, in particolare, mi occupavo di astronomia: avevamo due telescopi, seguivo le manutenzioni, le osservazioni astronomiche e anche un lavoro di cui mi occupo al Sardinia Radio Telescope, ossia lo sviluppo del software del radiotelescopio".

Per affrontare questa esperienza ha seguito una preparazione fisica e mentale?

"Fisica no, mentale sì. Teoria e pratica perché, per esempio, vivi in un luogo non raggiungibile per molti mesi. Nessuno può lasciare la base e nessuno può arrivare, quindi devi essere pronto a far fronte a ogni emergenza in particolare, il caso più estremo, il recupero di una persona all'esterno. Ma anche corsi di tipo psicologico e incontri di gruppo per conoscerci - noi della missione - e una formazione tecnica per poter gestire gli esperimenti che avevamo in carico".

Marco Buttu con la bandiera dei Quattro mori in Antartide (foto Facebook)
Marco Buttu con la bandiera dei Quattro mori in Antartide (foto Facebook)
Marco Buttu con la bandiera dei Quattro mori in Antartide (foto Facebook)

È vero che lo yoga l'ha aiutata?

"Sì, una forma particolare che praticavo ogni giorno e prevede un'attività fisica molto intensa di circa un'ora e mezza, con fasi di introspezione e meditazione. E anche la respirazione controllata, che mi ha aiutato per quanto riguarda la carenza di ossigeno, insomma per sapere come affrontare i sintomi simili a quelli dell'alta montagna".

Come trascorreva le giornate alla base?

"Durante l'inverno si lavorava per otto ore, io cominciavo in mattinata e andavo avanti anche oltre mezzanotte a seconda delle osservazioni. Nel tempo libero e dopo i pasti ci riunivamo e si chiacchierava, si giocava a carte o si guardava un film. Come una sorta di passatemi di tanto tempo fa, quando non c'era la tv nelle case. Mentre si pranzava o si cenava non si era distratti da altro, si parlava e basta".

Cosa le è mancato di più e cosa ha imparato ad apprezzare?

"Non avere altre forme di vita intorno, nessuna proprio, è qualcosa di non semplice da superare. Mi mancava vedere la vegetazione, gli insetti, sentire i profumi della campagna. E poi i bambini. Forse perché eravamo tutti adulti. Di solito non ci pensi, ma fanno parte della tua vita e non averli intorno ti manca. Che ho apprezzato ancora di più invece, non che prima non lo facessi, anzi, è la vita. Ho proprio avuto la sensazione per cui ogni forma di vita vale tanto quanto le altre. Hanno la stessa importanza, anche su altri pianeti".

La cosa più difficile da fare?

"Lavorare all'esterno quando c'erano problemi ai telescopi, al buio e a meno 80 grandi, con -100 di temperatura percepita. Tutto quello che fai in modo quasi banale lì diventa difficile".

E da evitare?

"Perdere la pazienza con i tuoi compagni di viaggio. È successo ma come capita nella vita quotidiana. Diciamo che all'inizio tutti eravamo attenti a questo aspetto, ma può accadere - in particolare negli ultimi mesi - che ci siano incomprensioni".

La paura più grande.

"Non ne ho avute. Ero consapevole che poteva succedere qualunque cosa mentre ero fuori dal mondo. Sapevo che, una volta tornato, avrei potuto non trovare delle persone care senza la possibilità di averlo saputo prima".

Non c'è un "piano B" in caso di emergenza?

"C'è per esempio in caso di incendio. Sapevamo come lasciare la base, recuperare dei vestiti e rifugiarci in una tenda dove poter restare per il resto del tempo".

Qual è stata la prima cosa che ha fatto una volta finita la missione?

"Stare in famiglia per tre settimane. E poi anche qualche escursione".

Cosa fa adesso?

"La promozione del libro assorbe tutte le mie energie tra presentazioni e interviste. E in queste due settimane ho fatto anche una bella esperienza, estrema ma come osservatore: ho seguito un amico che, unico in Sardegna, si lancia dalle montagne con la tuta alare. Gli scatto delle foto, mi piace molto".

Di cosa parla "Marte Bianco: nel cuore dell'Antartide"?

"Del prima, durante e dopo la missione. Ma affronto vari temi e uno in particolare: il concetto di impossibile. Attraverso dei racconti parlo di scienza. In sostanza: siccome quando parli di scienza la gente si annoia, allora ho trovato questo escamotage dei racconti".

Cosa consiglia ai ragazzi che desiderano seguire un percorso simile al suo?

"Io sono una persona normalissima, probabilmente meno dotata di chi leggerà questa intervista. L'unica dote che ho è la perseveranza. Niente è impossibile se ci credeve e siete perseveranti. Non avrei mai pensato che sarei arrivato in Antartide a fare questa esperienza. Ma se non ci provi non saprai mai cosa potrai fare. Poi non è detto che tu riesca, ma è come alle Olimpiadi: non tutti possono vincere".

Nel suo futuro prossimo ci sono novità?

"Spero in una missione breve, qualcosa che ha a che fare con una simulazione relativa allo Spazio. Ma non posso dire altro".

Sabrina Schiesaro

(Unioneonline)

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