Un nuovo esame del dna, la scoperta che nel borsello usato dal rapinatore-omicida non ci sono tracce biologiche dell’imputato, l’immediata richiesta di riesaminare le prove per arrivare a un finale diverso da quello costato 20 anni di carcere all’uomo ritenuto autore del delitto.

Gli avvocati di Giovanni Cocco, condannato in via definitiva dalla Cassazione nel 2014 quale autore dell’assassinio di Ottavio Corona, direttore della filiale del Banco di Sardegna a Olia Speciosa, Castiadas, ucciso il 6 giugno 2003, erano convinti che il lungo lavoro di ricostruzione della vicenda di sangue avrebbe convinto la magistratura che no, il loro assistito non è colpevole. L’esito della recente consulenza portata a termine con tecniche «innovative» e conoscenze scientifiche prima non disponibili lo dimostrerebbe: possibile che il presunto colpevole non abbia lasciato tracce su un oggetto che teneva con sé al momento della sparatoria? La risposta dei legali Massimo Delogu e Sergio Pittau è chiara: non è possibile. Quindi il vero l’assassino è ancora libero.

Tocca alla Cassazione

Ma la speranza di arrivare a una nuova verità è stata cancellata dalla Corte d’appello di Roma cui i legali si erano rivolti per riaprire il caso. I giudici capitolini lo scorso marzo hanno respinto la richiesta di ammettere la revisione del processo, diniego basato su questo presupposto: le tecniche sono innovative e le acquisizioni scientifiche sono moderne, è vero, ma la condanna è arrivata anche in base ad altri elementi. Non basta l’assenza del Dna dell’imputato sul borsello. Cocco è responsabile del delitto. Fine.

O forse no, perché in una vicenda ormai ventennale manca ancora un passaggio. Un ulteriore grado di giudizio davanti alla Corte suprema. I due avvocati si sono nuovamente rivolti alla Cassazione chiedendo l’annullamento della decisione presa tre mesi fa e il proscioglimento del loro cliente. Domanda ancorata però a elementi che la Corte romana ha ritenuto già ampiamente valutati nei gradi precedenti. La strada è stretta.

L’omicidio in banca

Secondo la sentenza definitiva, che risale al 2014, Cocco aveva ucciso Corona sparandogli con una pistola durante un tentativo di rapina. L’imputato aveva preso la pistola datagli dal fratello Raffaele, si era mascherato con parrucca e baffi posticci e, approfittando di una distrazione del direttore, era entrato in banca durante l’orario di chiusura. Per Corona, che aveva ottenuto il trasferimento a Quartu, era l'ultimo giorno di lavoro. Si era trattenuto in ufficio a pranzo per ricevere un conoscente ma aveva dimenticato di chiudere i bussolotti esterni e, salutato l’amico, si era trovato davanti un giovane in maglietta e bermuda e con un borsello. Aveva reagito e gli si era avventato contro, ma dalla pistola del bandito era partito un colpo che l’aveva ucciso. La scena era stata ripresa dalle telecamere a circuito chiuso. Il rapinatore era scappato lasciando il denaro ma nella corsa aveva perso l’arma, attraverso la quale gli investigatori erano risaliti a Raffaele Cocco, un fabbro capace di modificare armi giocattolo come quella. Gliela avevano fatta vedere in una foto, lui l’aveva riconosciuta come sua ma aveva sostenuto di averla consegnata al fratello Giovanni, muratore a Villasimius. Dalla successiva perquisizione in casa di quest’ultimo non era emerso alcunché, ma poco prima che le forze dell’ordine andassero via il manovale aveva fatto veder loro una pistola simile a quella persa dal rapinatore. Poco dopo Raffaele si era presentato alla Polizia stradale spiegando di essersi sbagliato: aveva consegnato l’arma modificata non al fratello ma a una guardia giurata di Burcei. Una calunnia, secondo i giudici, utile ad allontanare i sospetti da loro. Così Giovanni era finito sotto accusa per rapina, porto abusivo d’arma e omicidio. Ed era stato condannato a 20 anni.

La Corte d'assise di Cagliari durante il processo nel 2011 (archivio)
La Corte d'assise di Cagliari durante il processo nel 2011 (archivio)
La Corte d'assise di Cagliari durante il processo nel 2011 (archivio)

Il ricorso

Qui comincia la seconda parte della vicenda, con gli avvocati Pittau e Delogu che riprendono in mano il fascicolo, si convincono dell’innocenza del loro cliente e incaricano uno specialista (Stefano Gessa) di portare a termine una consulenza sui reperti ancora disponibili. I risultati delle analisi sul borsello li convincono di aver centrato nel segno: sulla sua superficie non ci sono tracce biologiche riferibili a Cocco, le verifiche lo hanno «escluso con una probabilità del 100 per cento». Così ecco il ricorso presentato alla Corte d’appello di Roma per chiedere la revisione del processo: «È un processo indiziario, non ci sono elementi certi», e la mancanza del Dna del condannato (54 anni) «deve portare al proscioglimento» dell’imputato perché non si può sostenere «seriamente» che sul borsello rimasto dentro la banca dopo la sparatoria possano esserci «tracce di Dna di più persone» fuorché «propria quella di chi si ritiene lo portasse». Cioè l’omicida.

La Corte d’appello romana però ha respinto la domanda sostenendo che in realtà nulla di nuovo sia stato portato alla loro attenzione. Per riaprire una vicenda chiusa a tripla mandata con la sentenza definitiva serve qualcosa di mai visto in precedenza, capace di dimostrare che davvero la decisione era sbagliata e qualcun altro avesse premuto il grilletto. A suo parere non è questo il caso. È vero, hanno convenuto i giudici, che la consulenza della difesa è basata su «nuove acquisizioni scientifiche e tecniche innovative che consentono di ottenere risultati non raggiungibili con metodiche in precedenza non disponibili e quindi dati non accessibili». Tuttavia l’assenza del Dna di Giovanni Cocco è stata ritenuta non decisiva perché la condanna è arrivata prescindendo da quelle tracce. L’importanza o meno della cui assenza, ha aggiunto la Corte, era stata già comunque valutata dall’Assise d’appello.

Le immagini girate dalla telecamera di sorveglianza dell'istituto (archivio)
Le immagini girate dalla telecamera di sorveglianza dell'istituto (archivio)
Le immagini girate dalla telecamera di sorveglianza dell'istituto (archivio)

Qui si arriva al passo finale (per ora) della vicenda, perché questa decisione ha spinto i difensori a presentare il ricorso in Cassazione. Secondo i due legali i giudici romani avrebbero commesso l’errore di paragonare una consulenza (quella di dieci anni fa) che ha attestato la presenza sul borsello di più Dna, tanto da rendere «impossibile individuare un profilo genetico comparabile» con qualcuno, a un altro esame (quello di Gessa) che, grazie alle nuove tecniche, ha «escluso la presenza del Dna di Cocco con una probabilità del 100 per cento». Poi gli avvocati hanno elencato le testimonianze che, a loro dire, dimostrerebbero la fragilità della sentenza di condanna o, comunque, dovrebbero far sorgere dubbi sulla reale colpevolezza di Cocco (tutti elementi che però in primo e secondo grado sono stati analizzati, valutati e ritenuti non adeguati a scagionare l’imputato): una testimone che avrebbe prelevato denaro dal bancomat dell’istituto il giorno del delitto «ha detto che a quell’ora» lì davanti «c’era una persona che indossava calzoncini corti e una maglietta bianca fuori dai pantaloni, proprio come il rapinatore ripreso dal circuito di videosorveglianza, e che quella persona non era Giovanni Cocco, che conosceva»; il telefono dell’imputato quella mattina «ha agganciato alle 12,54 la cella di Villasimius, distante 20 chilometri dalla banca»; il circuito di videosorveglianza della filiale ha ripreso il bandito «una prima volta alle 13,24, dopo che l’uomo, come risulta dalla sentenza, aveva parcheggiato l’auto a 500 metri di distanza»; la sorella di Giovanni Cocco ha sostenuto che nella settimana dell’omicidio il fratello, al lavoro in una impresa edile, mangiava da lei «ogni giorno a Villasimius»; nonostante il rapinatore avesse la suola sporca di sangue, «sulle scarpe e nell’auto di Cocco non era stata trovata alcuna traccia ematica»; tutti i colleghi di lavoro «hanno confermato che Cocco il giorno della rapina aveva lavorato in cantiere e tutti assieme, all’ora di pranzo, erano andati al bar di Villasimius per un caffè».

Inquirenti e difensori durante il processo a Cagliari (archivio)
Inquirenti e difensori durante il processo a Cagliari (archivio)
Inquirenti e difensori durante il processo a Cagliari (archivio)

La Corte d’appello di Roma

La Corte d’appello di Roma nel valutare la domanda dei difensori ha ricordato che la Corte d’Assise d’appello, nel pronunciare la sentenza di condanna, aveva ritenuto che l’assenza di sangue dimostrava solo che «le scarpe, e forse l’auto, non erano state usate per la rapina o che erano state lavate»; le dichiarazioni dei colleghi di Cocco «erano state concordate a tavolino»; la «modestissima distanza tra Villasimius e Olia Speciosa, 20,4 chilometri, era percorribile in 20 minuti e anche meno, vista la conoscenza dei luoghi di Cocco» che la utilizzava la strada tutti i giorni; la testimone non può aver visto il rapinatore alle 13,15 (quando a suo dire aveva prelevato) perché «risulta documentalmente che abbia preso denaro alle 12,47»; tra l’altro «il primo tentativo di ingresso del rapinatore in banca risale alle 13,24 e non sarebbe stato prudente né ragionevole trattenersi lì per 30 minuti in un orario in cui gli uffici erano ancora aperti col rischio di essere notato e identificato».

La testimone e il bandito

Pareri criticati dagli avvocati, i quali nel ricorso hanno replicato così: improbabile che, riguardo il presunto accordo tra i colleghi per dare un alibi a Cocco, tutti si fossero «coalizzati per compiacere un amico dell’imputato e coprire una persona che aveva commesso un delitto»; sul percorso da coprire in soli venti minuti, non sarebbe ipotizzabile che Cocco abbia potuto «lavorare in cantiere» per poi andare «in 24 minuti a Castiadas, parcheggiare l’auto a 500 metri dalla banca e commettere rapina e omicidio» impiegando tra l’altro solo «4 minuti per posteggiare, percorrere mezzo chilometro a piedi ed entrare in banca»; infine, hanno spiegato i due legali, nonostante per i giudici «l’uomo con i calzoni corti e la maglietta bianca» visto dalla testimone e inquadrato poi dalle telecamere della banca «non poteva essere il rapinatore nonostante fosse vestito esattamente in quel modo», sarebbe «difficile ipotizzare che in soli 30 minuti due persone con caratteristiche fisiche compatibili vadano in banca vestite allo stesso modo con un abbigliamento dello stesso colore e la maglietta fuori dai pantaloni».

Caso chiuso?

Chi ha ragione? Tre gradi di giudizio hanno attestato la colpevolezza di Cocco. La Corte d’appello di Roma ha respinto la richiesta di revisione. Ora sarà la Cassazione a decidere se chiudere definitivamente il caso o riaprire una vicenda vecchia quasi vent’anni.

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