Tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta il nostro Paese attraversò un periodo buio, con tanti misteri che ancora oggi si trascinano e sui quali non è stata fatta luce. Basti pensare al giallo della strage di Ustica che, a distanza di 45 anni, non è ancora associabile alla parola verità, visto che non esiste un’inchiesta o un processo che si siano chiusi con una definizione della vicenda tragica avvenuta nella notte del 27 giugno 1980.

Chi invece contribuì senza dubbio a fare luce sugli anni di piombo sono due servitori dello Stato che hanno pagato con la vita il loro impegno civile. Due nomi, due volti, due vite spezzate dallo stesso nemico: l’eversione neofascista. Mario Amato e Vittorio Occorsio sono i simboli di una magistratura che, tra silenzi istituzionali e coraggio personale, ha combattuto da sola una guerra sotterranea contro le trame nere della Repubblica tra gli anni Settanta e Ottanta appunto. Entrambi assassinati a breve di distanza, Occorsio nel 1976, Amato nel 1980. Per loro, purtroppo, ha pesato moltissimo, fino al sacrificio finale, l’isolamento di chi ha cercato la verità dentro una stagione di bombe, collusioni e segreti.

Le storie

Il primo a cadere fu il giudice Vittorio Occorsio, magistrato romano, impegnato già dalla fine degli anni Sessanta nelle indagini sui gruppi eversivi di estrema destra. Fu lui a portare sotto processo Ordine Nuovo, a svelare la struttura di questa organizzazione di estrema destra, i legami internazionali e i contatti con apparati deviati dello Stato. Pagò con la vita la scelta di non voltarsi dall’altra parte. Il 10 luglio 1976, tra pochi giorni dunque ricorrerà il 49° anniversario dell’attentato, fu assassinato con una raffica di mitra a Roma da Pierluigi Concutelli, uno dei principali esponenti dell’estrema destra armata. Un omicidio politico, freddo, esecutivo. Ma soprattutto un messaggio: chi tocca certi fili, muore.

Concutelli, esponente di spicco dell’organizzazione neofascista, fu condannato all’ergastolo per l’omicidio del magistrato Vittorio Occorsio. La condanna fu emessa dalla Corte d’Assise di Firenze nel 1978 e divenne definitiva nel 1980. Durante la detenzione, Concutelli fu responsabile di altri due omicidi in carcere, ottenendo ulteriori ergastoli. Nel 2011, a causa di gravi problemi di salute, gli fu concessa la sospensione condizionale della pena e trascorse gli ultimi anni agli arresti domiciliari fino alla sua morte nel 2023.

Il neofascista fu condannato anche per l’omicidio di Ermanno Buzzi, avvenuto il 13 aprile del 1981 nel cortile del carcere di Novara. Buzzi era un militante neofascista bresciano, condannato in primo grado per la strage di piazza della Loggia. Concutelli, insieme a un altro terrorista nero, Mario Tuti, lo strangolarono perché lo ritenevano un traditore.

Appena un anno e due mesi dopo, il 10 agosto del 1982, sempre nello stesso carcere, Concutelli strangolò anche Carmine Palladino, luogotenente di Stefano delle Chiaie, leader di Avanguardia nazionale, altra formazione dell’eversione nera, perché sospettato di voler collaborare con l’autorità giudiziaria. Ma soprattutto Concutelli trascorse molto tempo anche nel supercarcere sardo di Badu ‘e Carros a Nuoro, dove fu testimone il 17 agosto del 1981, dell’efferato omicidio del braccio destro di Renato Vallanzasca, Francis Turatello, di cui era compagno di cella, da parte dei Angelo Epaminonda e Pasquale Barra, detto “O animale”, che infierì sul corpo del malavitoso milanese strappandogli il cuore e morsicandolo per inviare un messaggio molto chiaro agli uomini della sua banda. Era il segnale che la Camorra ma soprattutto la Mafia siciliana stavano spostando le loro attenzioni sul Nord d’Italia.

Vittorio Occorsio, magistrato ucciso nel 1976
Vittorio Occorsio, magistrato ucciso nel 1976
Vittorio Occorsio, magistrato ucciso nel 1976

L’eredità di Occorsio

Quattro anni dopo la scomparsa di Vittorio Occorsio fu assassinato anche Mario Amato, magistrato che in qualche modo ne aveva raccolto l’eredità. Amato, anche lui sostituto procuratore a Roma, anche lui destinato a indagare sui nuovi volti dell’eversione nera, i Nuclei Armati Rivoluzionari (NAR). Intuì fin da subito la rete che si stava ricompattando sotto nuove sigle e volti più giovani, ma con le stesse radici ideologiche e appoggi insospettabili. Lavorava da solo, senza pool, senza scorta, circondato da un muro di indifferenza. Il 13 giugno 1980, in un’audizione al Consiglio Superiore della Magistratura, denunciò l’isolamento e la minaccia concreta che gravava su di lui. Dieci giorni dopo, il 23 giugno (pochi giorni fa ricorreva il 45° anniversario della morte), venne ucciso con un colpo alla nuca mentre aspettava l’autobus in viale Jonio a Roma. A premere il grilletto fu Gilberto Cavallini, alla guida della moto che trasportava il killer c’era invece Luigi Ciavardini.

Il killer di Mario Amato apparteneva ai Nuclei armati rivoluzionari e nella sua carriera ha messo insieme nove ergastoli per vari crimini, tra cui anche la strage di Bologna, condanna diventata definitiva appena pochi mesi fa, nel gennaio del 2025, quando la Cassazione ha confermato le sentenze di primo e secondo grado. Ciavardini, invece, l’uomo che guidava la moto, all’epoca dei fatti era ancora minorenne. Pe l’omicidio del giudice Amato fu condannato a dieci anni di reclusione, mentre per la strage di Bologna ebbe 30 anni con una sentenza confermata definitivamente dalla Cassazione nel 2007. Pochi anni dopo, nel 2009, arrivò per lui il regime di semilibertà.

Per l’omicidio del giudice Amato, inoltre, furono condannati all’ergastolo anche Francesca Mambro e Valerio (Giusva) Fioravanti. Secondo le sentenze di condanna, furono loro i mandanti dell’azione terroristica compiuta da Cavallini e Ciavardini.

Le similitudini

Le similitudini tra le figure di Vittorio Occorsio, a cui oggi è stata intitolata tra le altre cose una Fondazione presieduta dal nipote, notaio romano che porta lo stesso nome del nonno, e Mario Amato sono impressionanti. Entrambi indagavano sulle stesse strutture eversive, ne condividevano i dossier, ne conoscevano i pericoli. Entrambi furono lasciati soli dalle istituzioni e privati della protezione richiesta. Entrambi capirono troppo, troppo presto, e troppo a fondo. Ma se l’omicidio di Occorsio scosse solo marginalmente l’assetto della magistratura e della politica, la morte di Amato costrinse finalmente la Procura di Roma a reagire. Fu solo allora che nacque un pool antiterrorismo, che le inchieste ripresero il cammino tracciato, che i collegamenti tra eversione, criminalità comune e apparati deviati dello Stato cominciarono a essere messi nero su bianco.

Il loro sacrificio resta una ferita aperta nella memoria della Repubblica. Non solo per la violenza con cui furono uccisi, ma per il silenzio che li circondava in vita. Erano magistrati “scomodi” perché non si accontentavano dei pesci piccoli, andavano in profondità, cercavano — come disse Amato pochi giorni prima di morire — una “verità d’assieme”, più ampia, più pericolosa, più vera.

Oggi i nomi di Vittorio Occorsio e Mario Amato sono ricordati in cerimonie ufficiali, commemorati nei discorsi del Presidente della Repubblica, scolpiti nei muri dei tribunali e nei manuali di storia. Ma il vero tributo non sta nelle targhe, bensì nella consapevolezza che la giustizia non può camminare da sola. Che la verità, per essere difesa, ha bisogno di coraggio, ma anche di protezione. E che l’isolamento, per un magistrato, può essere una condanna a morte.

Amato e Occorsio ci hanno lasciato molto più di una lezione giudiziaria. Ci hanno consegnato l’immagine di una Repubblica che ha vacillato, ma che grazie a uomini come loro ha trovato la forza di guardarsi allo specchio. E di reagire.

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