In cucina non mancano mai cisto e menta, lentischio o finocchietto selvatico. È come se le erbe e gli aromi sprigionassero una forza di gravità che ti riporta alle radici. Ogni sapore conduce là, là dove ti porta il cuore. Alle mamme, alle nonne, alle zie. Al forno a legna ancora fumante, ripulito con i ramoscelli di quelle spezie, alle trote e alle anguille de S'Erriu mannu, agli uomini forti e alle belle donne dagli occhi ridenti e fuggitivi che popolano il villaggio fiorito. Triei, terra di teneri virgulti e culla di chef baciati da fama e successo. Li accomuna il forte richiamo degli avi e proprio dagli avi i cuochi traggono la linfa della loro inesausta passione. E' bello approfondire storia, personalità e inclinazioni di quattro di loro.

IL CUOCO DEL QUIRINALE Pietro Catzola, 61 anni, è il cuoco dei presidenti della Repubblica. Da trent'anni ai fornelli del Quirinale, senza mai dimenticare il paese d'origine. "La passione per la cucina che fa di Triei un paese di chef - osserva - dipende dal fatto che siamo circondati da mamme e da nonne che cucinano, ci coinvolgono. Sono assai condizionato dalle paste fresche, sa fregula, goccia su goccia sulla farina e passata al setaccio e poi infornata nel forno a legna. Le erbe aromatiche, utilizzate per pulire il forno, su mudregu, s'ollistincu. Erbe aromatiche e oli. Mia nonna non poteva fare a meno del finocchietto selvatico, della menta, un identificativo del mio paese. Squisita sulla trippa con il pecorino, ottima da mettere a macerare per i carpacci di pesce. E che dire della carne marinata con rosmarino, alloro, bacche di ginepro, aglio in camicia? Hanno inciso molto le tradizioni sulla mia formazione. A Triei c'è tutta la filiera del food. Mia nonna venti giorni su trenta dava s'aggiudu cambiu. Un giorno il pistoccu si faceva a casa sua, un giorno a casa di una vicina, un giorno a casa di un'amica. Funzionava così, era la filiera del food a 360 gradi. Ricordo la raccolta dei legumi, il mulino vicino a casa. Nonna Virginia Tangianu. I cugini Monni dalla parte di mia madre sono un cult, cucinavano in campagna. C'era il coniglio in casseruola. Oppure le anguille e le trote. De s'erriu mannu. E sa pasta e coia, quella del banchetto nuziale".

Avi e discendenti, la storia continua. Un nipote di Pietro, Federico Catzola, classe 1995, lavora a Londra. Empshire. Si è formato a Milano, allievo di Sergio Mei Tommasi, il grande chef di Santadi. Anche lui, in questi giorni, è a Triei. A Triei lo chef dei presidenti trascorre ricorrentemente le sue ferie. Ferie? Si fa per dire. Quest'estate non sta cucinando per capi di Stato e di Governo ai fornelli del Quirinale ma prepara delizie per amici e parenti che vanno e vengono dal paese. "Ho visitato le cantine Argiolas, a Serdiana, e ci ho trovato una fregola a base di un'alga spirulina. Dunque mi è venuta l'idea: un po' di gamberi rossi di Arbatax, due scampi. Un soffritto di cipolla, sedano e finocchio, il liquido delle teste dei crostacei schiacciate, vino bianco per sfumare e pomodori datterini. Ho fatto cuocere per venti minuti. Poi merluzzi per un fumetto di pesce. Ho bagnato la fregola e la salsetta. La polpa dei crostacei a macerare con scorza di limone e un po' di succo. Gamberi e scampi rigorosamente crudi a guarnire il piatto. Ho fatto una cena con trittico di primi. Fregula spirulina al crudo di gambero rosso e scampi di Arbatax, appunto, e poi risotto al tartufo nero".

Il terzo piatto è un segreto che lui tiene per sé. Infaticabile, un sorriso sempre stampato sul volto, arruolato nel 1975, ricorda quando Cossiga - 1987, Civitavecchia - lo pregò di lasciare la cucina dell'Amerigo Vespucci, Marina militare, e di seguirlo al Quirinale perché andava in pensione un vecchio chef. In principio lui prese tempo: "No, preside' io sto qui". Neanche un tentennamento. No assoluto. Il corteggiamento continuò. "Mi invitò in presidenza, mi fece ricevere da Alfredo Masala, della sua segreteria particolare. Alla fine ho ceduto". Ed è stata la sua fortuna. Ha imparato a scuola e da altri chef. "Anche da chi ha lavorato con me nelle cucine della Vespucci. Ognuno mi ha trasmesso qualcosa. C'è sempre da imparare". II cuoco dei presidenti riceve tantissimi inviti. Il suo è un aggiornamento professionale continuo. Visita cantine, prosciuttifici, l'industria della salsa di pomodoro a Battipaglia. I campionati mondiali 2016. Ama il confronto, l'aggiornamento. Fa visita a Carlo Cracco, Heinz Beck. "C'è sempre da imparare - è il cesello di Pietro Catzola - mai sentirsi arrivati". Ha cinquant'anni di contributi, ma si diverte ancora. "È gratificante che il presidente si affacci in cucina, è tra le cose più appaganti che possono esistere. Una stretta di mano, anche un semplice come sta è il più bel complimento del mondo". Ha cucinato per statisti e teste coronate, mai per un Papa perché gli utlimi papi non si sono mati trattenuti al Quirinale per il pranzo. Per ogni capo di Stato Catzola ha un pensiero. "Mattarella, una persona che ammiro. Cossiga ha creduto in me. Scalfaro apprezzava il mio modo di lavorare. Ciampi mi faceva sentire a casa. Napolitano anche lui mi ha fatto sempre sentire a mio agio".

DA S'ERRIU MANNU AL PACIFICO Da Triei lo separano un oceano e un continente. Ma il richiamo di sua madre terra si sente nella west coast. Dal suo ristorante Paradiso, tempio della cucina italiana a Seattle (Usa), Fabrizio Loi, 53 anni, da trenta negli States, pensa ricorrentemente al borgo natìo. "A nonna Maria Imprugas che ci metteva intorno a un tavolo e ci faceva impastare". Sapeva che avrebbe fatto lo chef.

"Volevo andar via da Triei e mi dicevo: se vuoi emigrare o fai il cameriere o fai il cuoco". Scuola alberghiera ad Alghero nel 1978, poi la scelta di andar via. Cugino di primo grado di Pietro Catzola, concorda sul fatto che le lezioni di vita e di cucina degli avi siano il denominatore comune degli chef con culla a Triei. Affiorano i ricordi. "S'Erriu mannu? Come no. Andavamo a nuotare lì. Nonno materno ci ha fatto frequentare una sorta di scuola di sopravvivenza. Era un maestro nel ramo. Faceva tutto da sé, prendeva i pesci con le fascine. Allora non era illegale. Era cacciatore e pescatore infallibile. Coltivava ortaggi, alberi da frutto. Nonna e mamma in cucina facevano il resto".

Il piatto simbolo del legame con la sua terra per Fabrizio Loi è sa fregula. "La semola tostata ti ricorda il pane casareccio, i profumi del forno. È quella pasta che puoi permetterti di pensare da sola, o la puoi accompagnare con gli stinchi d'agnello e una dadolata di verdure fresche. La puoi fare in mille modi. Perfino in insalata, come il riso". La cucina sarda e italiana ("mia moglie è casertana, senza di lei non so se sarei riuscito a realizzare ciò che ho realizzato") costituisce il marchio dop del ristorante di Fabrizio Loi. Ma la situazione internazionale, l'emergenza sanitaria vieta di essere integralisti, anche ai fornelli. "Devi saper cucinare di tutto, soddisfare le esigenze della clientela. L'esperienza mi aiuta a resistere. In trent'anni ho vissuto due recessioni, il Covid, non mi sono mai arreso. Ho visto colleghi chiudere baracca. Io non mollo. La tenacia del sardo ti impone di non fallire". Te la porti appresso. Per terra e per mare. "Triei è un paese di cuochi, cacciatori e marinai. Negli anni ottanta tante persone di Triei erano imbarcate nelle navi mercantili. Era normale che si incontrassero in porti diversi, da Città del Capo a New York, in Argentina o in Nord Europa".

Lui ha scelto la prova del cuoco, di quelle serie, non a uso dei teleutenti. "Posso dire di aver fatto la scelta giusta, anche se i sacrifici sono enormi. Mi fermo a pensare un po' e poi mi dico che ciò che faccio mi piace, mi pesa relativamente". Sessantacinque posti a sedere in sala, ora 40 all'aperto in omaggio al distanziamento sociale, trenta dipendenti, il ristorante di Fabrizio Loi è un modello di impresa sarda nel mondo. Il segreto? "Non lamentarsi. Fare, fare sempre di più". Per un periodo l'ogliastrino d'America si divideva tra Seattle e Girasole, dove è proprietario del ristorante L'Ulivo. Lo reggeva in prima persona agli albori nei primi anni 2000, proponendo perfino bagni a mezzanotte in piscina. "Volevo che quell'hotel riprendesse a vivere". Ora non ce la fa più a seguirlo, lo ha affidato in gestione ad altri ristoratori capaci. Il pensiero torna sempre a Triei. "Sono orgoglioso del paesino da dove vengo e dei miei compaesani. Quando rientro a casa mi tengono un posto riservato in paese e nel loro cuore".

STELLATO SARDO-PIEMONTESE La terra dei cuochi ha dato i natali alla madre di uno chef stellato (Michelin 2018) che è nato, vive e lavora a Torino. Militare dell'Arma in gioventù ("ma anche senza divisa resto sempre un carabiniere"), 36 anni appena compiuti, Alessandro Mecca ha ereditato la passione per i fornelli dal padre ristoratore ma gli antenati materni hanno fatto la loro parte. Silveria Tangianu, zia della mamma, per lui è stata una musa ispiratrice. E ne serba sempre il ricordo anche oggi ai fornelli di uno dei templi della cucina in Piemonte. È lo Spazio 7 all'interno del museo d'arte Fondazione Sandretto - Re Baudengo. Dieci tavoli, uno spazio eventi, quattordici dipendenti: otto in cucina, due al bar, quattro in sala più gli aggiuntivi. Lui è lo chef, dipendente con procura da titolare. "Causa Covid abbiamo chiuso il 10 di marzo. Durante il lockdown abbiamo cucinato per i poveri. Per tre-quattrocento persone. Mercati generali di Torino, Barilla e produttori a chilometri zero ci hanno dato una grandissima mano di aiuto. Dalla Cascina Veneria abbiamo avuto tantissimo riso. È stato tutto molto emozionante".

A Triei è sempre venuto da bambino, ogni estate che Dio manda in terra. "Ringrazio ogni volta che torno qua per l'accoglienza, il profumo. È un continuum, le amicizie che non muoiono. Bellissimo quando ti vedono in giro e ti salutano come uno di loro: ciao Alessa'". Cita Andrea Parodi ("è la terra che ti sceglie non sei tu che scegli lei"), ama "l'appartenenza a un luogo", i primi piatti che preferisce citare sono la pasta fresca e le fave con lardo, la carne allo spiedo "di capra soprattutto". Le sue radici gli impongono di vautare con scrupolo le esigenze della clientela. "L'ogliastrino ama la cucina, è una buona forchetta. Accontentare un cliente che mangia bene a casa sua è molto difficile. Il cuoco è un mestiere servile nobilitato nel tempo. Ma nobilitarsi non significa perdere umiltà e concretezza. Bando al narcisimo, stare ai fornelli è atto di altruismo". Quando cucina gli piace "evocare un ricordo", arricchirlo delle creatività, riproporre un piatto classico senza snaturarlo. Riconoscere un gusto primordiale. "Sono andato in Sicilia. A Palermo ho fatto l'agnello con il lardo bruciato sopra. In cucina si può fare tutto e il contrario di tutto. Prendiamo un nostro piatto storico, il pomodoro ricostruito. Il gusto finale è il peperone ripieno, con tonno, acciuga, cappero. Un classico piemontese". La ricetta che preferisce suggerire è un dentice all'acqua pazza. Si fa così. Marinare la polpa del dentice nel succo di tre limoni per circa un'ora. Mettere le lische, le branchie e la testa per circa 15 minuti ad abbrustolire in forno a 200 gradi. A seguire, immergerle nel sugo di pomodoro ricavato dai pomodori San Marzano e lasciar cuocere per circa 40 minuti. A fine cottura, usare un passino manuale per evitare cambi di colore e lasciare riposare in frigorifero per circa 3 ore. Ricavare tre salse separate dai 150 grammi di fumetto: una con il basilico, una con lo zafferano e una con gli spicchi d'aglio. Per comporre il piatto disporre la tartare di dentice alla base, ricoprire con il succo di pomodoro e nappare con le tre salse. Cospargere sul piatto qualche cristallo di sale Maldon.

PROFETA IN PATRIA ALBERTO SECCI, ARBATASAR C'è chi dalla terra dei cuochi è partito e vi rientra soltanto per le ferie, c'è chi alla terra dei cuochi ha deciso di tornare. Cinquantun anni, manco a dirlo di Triei, emigrato a diciassette in Olanda e poi in Germania, Alberto Secci alla fine ha deciso di essere profeta in patria. Robusta esperienza quadriennale sulle navi da crociera (compresi otto mesi sulla Princess Cruise, quella della serie televisiva Love Boat), era venuto in ferie al suo paese. E ha deciso di restare. "L'idea di rientrare in Sardegna, essendo andato via da ragazzo, l'ho avuta spesso. E nel 2002 sono rientrato definitivamente". Come i suoi colleghi deve molto della sua passione alle radici. "Mia madre cucinava bene, era una donna molto forte, vigorosa, utilizzava al meglio ciò che la terra offriva. Ho imparato molto da lei. Anche mio fratello, sebbene non sia cuoco, è appassionato di cucina. E lui, studi all'Alberghiero, ha fatto della cucina una professione. Ora è lo chef del ristorante Arbatasar di Arbatax. Celebre la cena organizzata là nel 2017 dell'Accademia della cucina. Tema: il riuso.

Nell'occasione Secci aveva ricavato dalla testa di un dentice una zuppa rossa impreziosita con canederli di pistoccu; dal minestrone di ceci le crocchette fritte con pecorino. I resti della carne di pecora erano finiti tra i componenti di una panada, il budino di ricotta era stato rianimato con vin cotto e profumi d' arancio. Della serie: in cucina non si butta niente. Ristorante di mare, pesce privilegiato nel menu "ma solo perché i turisti lo preferiscono". La carne resta nel cuore di Alberto Secci. "Un piatto che non ho mai tolto dal menu è il filetto di manzo in salsa di cannonau. Un altro che va molto adesso è lo spaghetto quadrato in salsa di pesce spada marinato all'arancia, scorza e succo, timo fresco in crema di pecorino sardo stagionato". E piace la fregola "magari al nero di seppia con crema di scampi flambé. Mia madre ci faceva la minestra di anguille o la usava nel bollito di pecora". Tre anni fa lo chef è stato ospite della trasmissione Rai Geo e Geo, spazio cucina. Era con il professor Gianni Pes, studioso della longevità. Ha parlato de su pistoccu incasau, della zuppa di ceci, della cucina dei nostri avi, dei menu dei centenari insomma. "È stata una grande soddisfazione professionale".

Nel piacere di essere chef "la passione - conferma Secci - è fondamentale, la fatica non la senti tanto perché la cucina ti appassiona. Ti dà soddisfazioni nel sociale e sotto il profilo economico. Peccato che qui da noi in Ogliastra le stagioni siano diventate un po' corte. Occorre riuscire in qualche modo ad agevolare i flussi turistici sotto il profilo dei trasporti. Non c'è un aeroporto, il porto funziona a bassi regimi". L'Ogliastra però deve metterci del suo. "Non si finisce mai di migliorare. Dobbiamo puntare sulla tradizione e sulla qualità dei nostri prodotti, senza paura dell'innovazione. Con una certa prudenza e il giusto mix". Nella cucina di chef Alberto l'esasperazione è bandita. "L'azzardo è ammesso nello sperimentare nuove ricette, le forzature no. Spazio alla creatività ma sempre nella sobrietà".
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