È in tempi anormali, soprattutto se prolungati, che ciò che sarebbe da considerare normale diventa incredibilmente speciale. Un esempio? Eccolo: le banche prestano soldi alle imprese, o per meglio dire, hanno ricominciato a farlo. Il che, in realtà, sarebbe la loro funzione e anche la fonte delle plusvalenze attraverso le quali gli istituti di credito (che non si chiamano così per caso) riescono a tenere in ordine i propri bilanci.

Ma una cosa è la teoria, un’altra la vita vera. Da febbraio del 2023 fino allo scorso maggio – il che significa per 28 mesi consecutivi – gli imprenditori italiani hanno assistito, impotenti, al crollo verticale degli impieghi bancari destinati alle imprese. Questo, fino alla fine della primavera di quest’anno, quando c’è stata l’agognata “magia”, cioè la tanto attesa inversione di tendenza. Già, perché nel periodo da giugno a settembre del 2025 la quota di prestiti concessi alle imprese è cresciuta di una cifra di tutto rispetto, cioè cinque miliardi e mezzo di euro, rispetto al 31 dicembre del 2024. In totale, la quota di prestiti al sistema economico nazionale ha raggiunto i 647 miliardi.

Le aziende festeggiano? A dire il vero, non tutte, secondo quanto risulta all’Associazione artigiani e piccole imprese di Mestre, cioè la Cgia, che conta su un blasonato ufficio studi la cui attività è tenuta in grande conto dal sistema delle imprese italiane, ma anche del Governo.

La gabola c’è, e si vede: nei primi sette mesi di quest’anno, a ricevere un totale di prestiti più consistente sono state le attività con più di venti addetti: la cifra concessa loro dalle banche per poter crescere e investire è stata di 8,2 miliardi di euro superiore rispetto allo stesso periodo del 2024: in percentuale, fa un punto e mezzo in più. Non è così, invece, per le imprese di dimensioni più ridotte, cioè quelle che hanno fino a venti dipendenti, perché nel loro caso il dato è negativo: dal sistema creditizio hanno ottenuto 2,7 miliardi di euro in meno, con una flessione del 2,8 per cento.

È la stessa Cgia a rendersi conto che la questione potrebbe sembrare insignificante a chi non è del “mestiere”, invece non lo è affatto. Già, perché in Italia quasi tutte le imprese (per la precisione, il 98 per cento) hanno meno di venti addetti e impiegano il 55 per cento degli italiani che lavorano per il settore privato (il conteggio esclude dunque la pubblica amministrazione).

Che cosa stanno facendo, quindi, le banche? Sicuramente stanno aprendo i cordoni della borsa per finanziarie con il credito le imprese più grandi: in quelle piccolissime, peraltro, i costi di istruttoria prima di concedere il credito sono relativamente più elevati e la gestione della pratica amministrativa è decisamente più complessa.

E poi c’è la lontananza, sempre maggiore, tra le banche e il mondo produttivo, e questo è un effetto inevitabile. La colpa è delle aggregazioni tra diversi istituti, cioè delle incorporazioni di banche cosiddette “minori” ma ben diffuse nel territorio, che sono state inglobate dai colossi del credito e della gestione dei prestiti. Datori e ricevitori di finanziamenti non si conoscono più tra loro e la Cgia di Mestre ha ben presente il problema: il rischio è che gli istituti di maggiori dimensioni e con minor radicamento nel territorio possano mostrare un interesse ridotto verso le piccole imprese. A dire il vero, già lo fanno: le fusioni hanno concentrato eccessivamente il rischio creditizio, generando a loro volta una contrazione del credito.

Malgrado questo, le banche restano centrali nel nostro panorama economico: supportano il tessuto produttivo (quando decidono di farlo), fornendo così la liquidità necessaria alle imprese per crescere e, magari, prosperare. E sono loro, quindi i piccoli imprenditori e artigiani, a tenere in piedi la “baracca Italia”, creando posti di lavoro e valorizzando il made in Italy. D’altra parte, le banche allargano i cordoni della borsa per concedere i prestiti alle imprese, tornando così a partecipare al loro rischio d’impresa, ma a confortarle c’è anche il forte calo delle sofferenze bancarie, cioè delle rate di prestiti non rimborsate. A questo, si aggiunge la riduzione del tasso di interesse praticato dalla Banca centrale europea, che ha creato condizioni più favorevoli per i debitori.

C’è sempre almeno una classifica, nelle ricerche della Cgia di Mestre, e questo caso non fa eccezione. Si scopre che le situazioni più difficili per quanto riguarda i prestiti delle banche alle imprese sono a Imperia e a Prato, dove i prestiti alle imprese sono calati del 5,6 per cento. Segue Vercelli con -5,7 per cento (pari a -81,6 milioni di euro) e poi Avelloni con -5,8 per cento.

Tra le più virtuose spicca Aosta, in cima alla classifica nazionale con un aumento di prestiti alle imprese pari al 18,3 per cento. Secondo posto per Trieste con +12,8 per cento e ultima, nel podio dei migliori, a sorpresa ecco Oristano: +9,2 per cento. Preoccupa il trend negativo del Veneto, dove gli impieghi invece si contraggono.

Scorrendo la graduatoria nazionale dei prestiti bancari alle imprese, scorgiamo dunque Oristano al terzo posto e poi Sassari al 23° con un +58,9 per cento. Il Sud Sardegna è 53°, Nuoro è al numero 76. La Sardegna intera è in undicesima posizione tra le regioni italiane con il suo +46 per cento di prestiti alle imprese.

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