Più partite, più pubblicità; più eventi da trasmettere, maggiori incassi per i diritti televisivi. E così gli introiti lievitano anno dopo anno, stagione dopo stagione. Mentre lo “spettacolo” occupa tutto lo spazio rimasto libero. Compreso quello canonicamente destinato alle vacanze che, per qualcuno pare incredibile, è un diritto garantito anche per i multi milionari, allo stesso tempo lavoratori dipendenti seppur a tempo.

Il gigantismo

Il calcio è affetto da gigantismo e non è un bene. Il rischio saturazione di qualche anno fa è realtà oggi. Si gioca il lunedì (posticipo del campionato), si scende in campo dal martedì al giovedì (le coppe europee), si va avanti dal venerdì alla domenica (di nuovo i tornei nazionali, dalla A alla C solo per citare i professionisti), e quando le squadre di club si fermano sono le competizioni che vedono impegnata l’Italia a tamponare la crisi di astinenza (?). Tutto per un solo scopo: i soldi. I miliardi di euro che genera il movimento a livello mondiale e che, come una bolla finanziaria, deve continuamente crescere per evitare di sgonfiarsi.

Luigi De Siervo, amministratore delegato della Lega di Serie A
Luigi De Siervo, amministratore delegato della Lega di Serie A
Luigi De Siervo, amministratore delegato della Lega di Serie A

Arroganza

Esemplificativo nella sua crudezza e arroganza la frase pronunciata a inizio ottobre da Luigi de Siervo, amministratore delegato della Lega di Serie A (e che il massimo torneo italiano abbia bisogno di una simile figura di dirigente la dice lunga su cosa sia diventato questo sport). «Rabiot si scorda, come tutti i calciatori che guadagnano milioni di euro, che sono pagati per svolgere un’attività, cioè giocare a calcio. Dovrebbe avere rispetto dei soldi che guadagna e assecondare maggiormente quello il suo datore di lavoro, cioè il Milan, che ha accettato e spinto perché questa partita si potesse giocare all’estero». Il manager liquidava così quando sostenuto il giorno prima dal centrocampista francese riguardo la decisione di far giocare Milan-Como a Perth, in Australia, nel febbraio 2026 vista la contemporanea impossibilità di utilizzare San Siro. «Una follia», secondo il calciatore.

Adrien Rabiot, giocatore del Milan e della Francia
Adrien Rabiot, giocatore del Milan e della Francia
Adrien Rabiot, giocatore del Milan e della Francia

Migliaia di chilometri

C’è da capirlo. La trasferta, lunga quasi 14mila chilometri, richiederà una giornata di viaggio, la necessità di adattarsi al fuso orario, un’alimentazione adatta, il tempo di allenarsi, quello di scendere in campo, di tornare sull’aereo, fare il percorso inverso e rientrare in tempo per la successiva partita. In Italia. Ha senso? Per chi è del mestiere no; per chi veste in giacca e cravatta e pensa al profitto come obiettivo principale evidentemente sì. «La salute dei giocatori è un elemento fondamentale», ha aggiunto il manager, che però ha ritenuto si trattasse di «una cosa complicata ma non impossibile. Soprattutto se la si pensa come un fatto eccezionale. La sfida organizzativa è complicata, le ore di volo sono tante ma si viaggia su una business class dall’altra parte del mondo, cosa che le squadre fanno stabilmente. I calciatori di vertice, che hanno stipendi commisurati alla fatica che svolgono, dovrebbero capire meglio di altri che questo è un sacrificio che si può fare».

Lo stadio di San Siro
Lo stadio di San Siro
Lo stadio di San Siro

La voce del padrone

La voce del padrone detta la linea e chi è fuori dal coro va rimesso in riga. Soprattutto se si parla di giocatori ricchi e viziati. Giusto? No. E l’uscita dell’ad è stata vista quasi come una censura. Tanto da spingere l’associazione italiana calciatori a intervenire con una nota nella quale il presidente Umberto Calcagno ha dovuto ribadire, incredibile a dirsi, che i giocatori sono «liberi di esprimersi», aggiungendo che «il problema non è rappresentato dall’eccezionalità di una gara e le legittime riflessioni di un atleta non andrebbero messe polemicamente in relazione con i suoi guadagni, ma ascoltate e accolte con spirito costruttivo. Il pensiero dei protagonisti esprime una sincera preoccupazione per la loro salute e per la qualità dello spettacolo offerto; calendari troppo serrati, con conseguenti sovraccarichi di lavoro, lunghe trasferte e insufficiente periodo di recupero, influiscono negativamente su questi aspetti e solo discutendone insieme si potranno trovare soluzioni che vadano a tutela degli interessi di tutti».

Maurizio Sarri, allenatore della Lazio
Maurizio Sarri, allenatore della Lazio
Maurizio Sarri, allenatore della Lazio

Si gioca troppo

Ecco il punto che tutti comprendono tranne chi comanda: si gioca troppo. E se anche l’allenatore Maurizio Sarri ha appoggiato Rabiot («ha ragione, i soldi non giustificano tutto. La risposta è stata brutta, così come tirare in ballo l’aspetto economico. Rabiot potrebbe rispondere che i soldi non li prenderebbe neanche la Lega se lui non andasse dentro a combattere tutte le domeniche»), De Siervo nella stessa occasione ha fatto capire che nell’immediato non c’è margine per ridurre gli impegni sul campo. «Per le tre grandi leghe, quella inglese, spagnola e italiana, l’idea di restare a 20 squadre in questo momento ci convince», ha detto, «perché nel momento in cui si calasse a 18, si perderebbe circa il 20 per cento di eventi sportivi, oltre a una forma di rappresentatività anche legata a grandi città e grandi territori, andando più rapidamente nella logica della compressione dei valori e degli interessi dei campionati nazionali rispetto a queste grandi competizioni europee». Chiarissimo: diminuire le partite significherebbe perdere introiti e avviarsi su una strada che comprometterebbe la tenuta economica del sistema.

Gianni Infantino, presidente della Fifa
Gianni Infantino, presidente della Fifa
Gianni Infantino, presidente della Fifa

Caselle piene

Così ecco che lo scorso aprile si è giocato anche a Pasqua, come non accadeva dal 1978 (fatta eccezione per un Perugia-Inter del 2004), in passato si è scesi in campo (e di nuovo accadrà in futuro) a Natale e Capodanno e, gli scorsi giugno e luglio, è stato avviato lo straordinario Mondiale per club, evento di cui si sentiva la mancanza: decine di partite negli Usa, alcune sotto un sole cocente e a orari impossibili, per un nuovo trofeo da conquistare a fine stagione, quando iniziano le vacanze dei calciatori. Costretti dunque a fare gli straordinari e a limitare il tempo libero prima di ricominciare la preparazione per la stagione successiva. «Abbiamo bisogno di staccare e invece dobbiamo andare, dobbiamo eseguire gli ordini», il commento di Rafinha del Barcellona riguardo il Mondiale, «rinunciare alle vacanze è complicato perché è un nostro diritto. Tutti meritano almeno tre settimane libere». Per capire cosa ci sia all’origine della competizione, voluta da Gianni Infantino (presidente della Fifa) e accolta dai proprietari delle società, basta dare uno sguardo al montepremi: un miliardo di euro. Per il Mondiale vero, quello delle Nazionali, nel 2022 era di 440 milioni.

Lo stesso Infantino che ha portato a 48 il numero di Nazionali che parteciperanno alla prossima Coppa del mondo (nel 2026) per un totale di 104 partite (erano 64 nell’edizione precedente) e che pensa di salire addirittura a 64 nell’edizione del 2032.

Jurgen Klopp, ex allenatore di Borussia Dortmund e Liverpool
Jurgen Klopp, ex allenatore di Borussia Dortmund e Liverpool
Jurgen Klopp, ex allenatore di Borussia Dortmund e Liverpool

Meno è meglio

C’è uno scollamento evidente tra i progetti scritti su carta e le necessità, e le convinzioni, di chi è protagonista dello spettacolo. Anche un allenatore tra i più vincenti come il tedesco Jurgen Klopp (titoli nazionali e Champions con Borussia Dortmund e Liverpool) ha definito il Mondiale per club «l’idea peggiore mai messa in pratica nel mondo del calcio», una competizione «inutile» che «toglie le vacanze ai calciatori» aggiungendo che «ci sono così tanti infortuni che a un certo punto si dovranno ridurre le partite, non dobbiamo aggiungerne ma ridurle. Non dobbiamo riempire ogni giorno di calcio. A volte meno è meglio».

C’è un avvenimento che indica chiaramente quanto si sia vicini al punto di saturazione. In Spagna è stata presa una decisione identica a quella italiana, con la programmazione del match di campionato tra Villarreal e Barcellona il 20 dicembre a Miami, in Florida, Stati Uniti. Iniziativa che ha sollevato proteste accesissime tra i giocatori, rimasti fermi per i primi 15 secondi dopo il fischio d’inizio nell’ultima giornata della Liga per denunciare la mancanza di dialogo coi vertici della Lega. Risultato: la maxi trasferta è stata annullata nonostante chi governa il calcio spagnolo l’avesse definita «un’opportunità senza precedenti per l’internazionalizzazione» del calcio nazionale, un «passo strategico per rafforzare la visibilità globale dei club, valorizzare i giocatori e consolidare il brand del campionato in un mercato chiave come quello nordamericano. La rinuncia al match di Miami limita la capacità dei club di generare nuovi ricavi, investire e competere a livello globale».

Ecco, si torna sempre lì: al denaro. E chi guida il mondo del pallone è sordo agli allarmi. L’obiettivo è il profitto, lo show non si può fermare. Sino a quando questa macchina andrà a schiantarsi. Quanto accaduto in Spagna dimostra che i veri protagonisti, i giocatori, quando vogliono e sono compatti si fanno sentire e indirizzano le scelte. In Serie A non è accaduto. Già oggi i giovani seguono poco il calcio, attirati da altro. Figurarsi domani. Auguri.

© Riproduzione riservata