È molto più di un tabù, è qualcosa di cui non parlare, da rimuovere addirittura. Eppure la sessualità dei detenuti è un tema importante, che riguarda la persona, pure se ristretta in un istituto penitenziario dopo una condanna definitiva, se non addirittura prima, quando è ancora in attesa di giudizio.

La questione sarà discussa il 5 dicembre dalla Corte costituzionale, dopo che il Tribunale di sorveglianza di Spoleto ha rimesso gli atti per valutare la legittimità dell’articolo 18 dell’Ordinamento penitenziario nella parte in cui non prevede che al recluso sia consentito, quando non ostino ragioni di sicurezza, di svolgere colloqui intimi, anche a carattere sessuale, con la persona convivente non detenuta, senza che sia imposto il controllo a vista del personale di custodia.

La questione è stata sollevata da un detenuto nel carcere di Terni condannato in via definitiva per tentato omicidio, furto aggravato, evasione e altro: l’amministrazione penitenziaria gli ha negato colloqui intimi con i familiari, in particolare con la compagna, e con la figlia di tre anni.

Il detenuto lamenta in particolare che la mancanza di rapporti intimi sta incidendo sul mantenimento del rapporto di coppia sul quale, peraltro, fa affidamento anche per il futuro reinserimento sociale. Dal momento che non è stato ammesso ai permessi premio a causa di alcuni comportamenti tenuti in carcere, i colloqui intimi sono l’unico strumento per esercitare il diritto a una serena relazione di coppia e per garantirsi a pieno un ruolo genitoriale. Fin qui il detenuto viene ammesso ai colloqui in cinque diverse salette, una delle quali è attrezzata per gli incontri con i figli minori di 12 anni, e in un’area verde. Ovunque è prevista una vigilanza permanente mediante sistemi di videosorveglianza o in presenza. Le sale sono predisposte in modo da accogliere più nuclei familiari contemporaneamente e in alcune fasce orarie c’è una cospicua presenza di persone che inevitabilmente incide sulla riservatezza del colloquio.

La questione dell’affettività-sessualità in carcere è già stata sollevata nel 2012 e la Corte costituzionle quella volta aveva deciso per l’inammissiblità dell’istanza. Del resto, anche nel 1992 era stato affermato che il vigente ordinamento penitenziario esclude per i detenuti la facoltà di rapporti sessuali, anche tra persone unite in matrimono. Questa esclusione appare conseguenza diretta della privazione della libertà personale. Quest’ultima espressione, però, non sembra tener conto di un contesto sovranazionale in cui diffusamente la privazione della libertà personale non si associa a un divieto assoluto di esercitare la sessualità con il/la partner in libertà in appositi momenti di incontro né si confronta con l’assenza di una previsione di questo divieto tra le pene, anche accessorie, previste nel Codice penale.

Secondo il Tribunale di Sorveglianza di Spoleto, insomma, viene messo in discussione il diritto alla libera espressione della propria affettività, anche mediante i rapporti sessuali, quale diritto inviolabile riconosciuto e garantito, essendo l’attività sessuale indispensabile completamento e piena manifestazione del diritto all’affettività oltre che uno degli essenziali modi di espressione della persona umana.

E ancora: la forzata astinenza dai rapporti sessuali derivante dal disposto normativo ostativo appare in contrasto con l’articolo 13 della Costituzione con riferimento al primo comma poiché di fatto determina una compressione della libertà personale che non appare giustificata in ogni caso da ragioni di sicurezza e che perciò finisce per tradursi in una sofferenza aggiuntica rispetto alla privazione della libertà che già inevitabilmente deriva dalla restrizione carceraria.

Il Tribunale va pure oltre nel momento in cui afferma che un’amputazione così radicale di un elemento costitutivo della personalità finisce per configurare una forma di violenza fisica e morale sul detenuto che, in mancanza di una giustificazione sotto il profilo della sicurezza (come nel caso in esame), volge in mera vessazione, umiliante e degradante, peraltro non soltanto per il condannato ma anche per la persona che convive con lui.

Dunque l’articolo 18 dell’Ordinamento pentenziario da un lato viola la Costituizione, dall’altro si infrange sulla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Di lì la sospensione del procedimento e la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale.

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