Iniziammo a usarlo per ingannare il tempo durante le file alle poste o dal medico di base. Del resto era abbastanza logico: rispetto alla noia dell’attesa, avere in tasca uno strumento capace di connetterci col mondo, di farci giocare, di aprirci la porta dei social era una tentazione troppo forte. Poi però questa cosa dello smartphone ci ha preso un po’ la mano. Sinceramente: chi non ha sperimentato almeno una volta l’impulso di usarlo anche nel breve tragitto di una passeggiata a piedi, magari da casa all’ufficio? Per non dire degli spostamenti su un qualsiasi mezzo pubblico: trovare su un treno un passeggero che ancora si perda nei suoi pensieri mentre guarda fuori dal finestrino, è praticamente impossibile. Il suo sguardo, che fino a qualche anno fa sarebbe stato assorto sul paesaggio, sarà irrimediabilmente catturato dal display del suo cellulare.

Ma il peggio è che, sempre più spesso, in quei tempi morti che cerchiamo di riempire col telefono finiamo per infilarci questioni di lavoro, o comunque altre incombenze. Bollette, l’iscrizione dei figli al corso di inglese, quell’acquisto su Amazon che stavamo rinviando. Al limite, la lista della spesa o l’elenco delle cose da fare nella giornata. Finita l’epoca in cui ogni minuto era buono per giocare a Ruzzle (lo usa ancora qualcuno?), o prima ancora a Snake, passatempo pionieristico installato già su telefoni ben poco smart. Quand’è che siamo diventati così seri?

“Fare cose” anziché rilassarsi

Il fenomeno è stato analizzato di recente da uno studio sintetizzato sulla rivista di divulgazione scientifica The Conversation. La ricerca era guidata da Ruth Ogden, docente di Psicologia del tempo alla John Moores University di Liverpool, in collaborazione con Joanna Witowska, associata di Psicologia all’Accademia pedagogica “Maria Grzegorzewska” di Varsavia, e con Vanda Černohorská, ricercatrice all’Accademia delle scienze della Repubblica Ceca.

Il ragionamento delle tre studiose parte da un fatto: la tecnologia ci consente di fare molte cose in meno tempo, basti pensare allo smart working che elimina i tempi di trasferimento per raggiungere il luogo di lavoro. Ma gli esempi potrebbero essere tanti: online si può comprare un paio di scarpe, pagare l’Enel, ottenere la prescrizione di un farmaco. Quelle famose file alle poste o dal medico non si fanno quasi più. In teoria, lo smartphone e l’iperconnessione ci hanno regalato molto più tempo libero. Solo che noi, notano Ogden e le sue colleghe, tendiamo a riempirlo di lavoro. O comunque a utilizzarlo per “fare cose”, anziché dedicarlo al divertimento o anche solo al riposo.

Cambia la percezione

Per lo studio in questione sono state intervistate circa trecento persone in vari Paesi d’Europa. A prescindere dalle diverse nazionalità, sembra quasi che compaia una sorta di horror vacui, che l’assenza di occupazioni materiali incuta soggezione. “La ricerca ha mostrato che la gente vuole evitare periodi di tempo vuoti nelle proprie vite”, scrivono Ogden, Witowska e Černohorská, “e così riempiono questi periodi svolgendo dei compiti, alcuni dei quali non sarebbero possibili senza la tecnologia”. Quest’ultima sta modificando negli individui la percezione del tempo libero. Per molti, limitarsi a guardare la tv o persino consumare una cena senza fare niente contemporaneamente, rischia ormai di apparire uno spreco di tempo. Poi c’è il grande capitolo dei social media: da un lato si passa sempre più tempo sulle varie piattaforme, dall’altro “la ricerca suggerisce che le persone sperimentino sovente un senso di colpa e rammarico quando riempiono il loro tempo libero con le attività online”, perché in qualche modo “le percepiscono come meno autentiche e proficue di quelle del mondo reale”.

Sempre più persone subiscono la pressione di una società iper competitiva
Sempre più persone subiscono la pressione di una società iper competitiva

Sempre più persone subiscono la pressione di una società iper competitiva

Una possibile spiegazione del perché la tecnologia ci induca alla fine a un maggior lavoro (mentre in teoria dovrebbe renderci più liberi), secondo le tre ricercatrici, è che i nuovi mezzi abbiano reso più confusi i confini tra il tempo dedicato all’impiego e quello per noi stessi. E questo si traduce in una pressione cui è difficile resistere. Per esempio, sapere che è possibile completare un lavoro accendendo il computer dopo aver messo a letto i figli, finisce per insinuare nella nostra mente il pensiero che, se invece ci buttiamo sul divano e guardiamo la tv, non stiamo facendo fino in fondo il nostro dovere. Questo probabilmente ha a che fare anche con una società sempre più competitiva e in cui è necessario garantire delle performance elevate, in ciascun ambito della vita. Ma sono atteggiamenti controproducenti: “Facendo di più, spesso finiamo per ottenere di meno e per sentirci peggio“, si legge ancora su The Conversation. “Stress, stanchezza e burnout aumentano, e si traducono in un maggior numero di assenze dal lavoro”.

Come salvarsi

Come via d’uscita, il primo suggerimento di Ogden e socie è “accettare che qualche volta va bene fare di meno, o niente”. In secondo luogo, sul lavoro dev’essere garantito il diritto alla disconnessione, attraverso specifici interventi legislativi: e a tal proposito vengono citati i provvedimenti già adottati in vari Paesi dell’area Ue, come Italia e Francia. Ma forse, concludono, anche la salvezza arriverà dalla tecnologia: “Immaginate se il vostro smartwatch, anziché dirvi di alzarvi e fare del movimento, vi dicesse di smettere di lavorare perché avete completato le ore previste dal contratto. Magari, quando la tecnologia inizierà a invitarci a fare di meno, potremo finalmente riconquistare il nostro tempo”.

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