Le guerre portano sempre morte e distruzione ma non sono tutte uguali, almeno dal punto di vista dell’economia. Scottati dalle pesanti e pressoché immediate conseguenze del conflitto in Ucraina sui conti delle famiglie, i cittadini europei stavano tirando un sospiro di sollievo nel vedere che, invece, l’attacco di Israele all’Iran non sembrava provocare gli stessi contraccolpi. Ma ora che si sono aggiunti gli Stati Uniti lo scenario potrebbe cambiare drasticamente, con conseguenze forse non meno gravi di quelle determinate dall’offensiva della Russia contro Kiev. E il motivo è uno solo: lo Stretto di Hormuz.

Solo 40 chilometri

Qualcuno forse non l’ha neppure mai sentito nominare, molti avrebbero difficoltà a collocarlo su una cartina: eppure da ciò che accadrà in quel breve tratto di mare – appena una quarantina di chilometri nel punto in cui la costa iraniana e la penisola arabica sono più vicine – dipende una parte delle nostre prossime fortune. Dopo la decisione a sorpresa di Donald Trump, che il 21 giugno ha scagliato un attacco contro tre siti nucleari iraniani pur avendo appena fissato un ultimatum di due settimane per concludere il negoziato sulle armi atomiche, Teheran ha ipotizzato – come possibile ritorsione – la chiusura dello Stretto. C’è da sperare che abbia ragione il vicepresidente Usa JD Vance, che ha subito replicato mostrando tutto il suo scetticismo sulla minaccia della Repubblica islamica: “Per loro sarebbe un suicidio”. Ma se invece l’Iran dovesse passare dalle parole ai fatti, sarebbero guai per molti.

Perché lo Stretto di Hormuz è uno dei principali snodi del commercio mondiale, sia per il petrolio (passa da lì circa il 30% di tutto il greggio scambiato nel pianeta), sia per il gas e merci di vario tipo. Una via di comunicazione irrinunciabile, in particolare, con l’Estremo Oriente. Il regime degli ayatollah controlla la costa settentrionale dello Stretto e ne ha minacciato la chiusura già diverse volte, senza mai attuarla. Secondo tutti gli analisti, una svolta di quel tipo causerebbe un forte shock sugli scambi e un aumento immediato e violento dei prezzi del petrolio. E non solo: il semplice aumento dei costi di assicurazione per le compagnie navali che attraversano l’area, per esempio, basterebbe a far salire i prezzi delle merci trasportate.

ANSA
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Un'immagine cartografica tratta da Google Maps dello Stretto di Hormuz, che divide la costa iraniana (a nord) dalla penisola arabica

La sicurezza con cui JD Vance ha minimizzato questo pericolo, però, non è ingiustificata. Le diplomazie internazionali hanno finora dato sempre poco credito alle minacce dell’Iran, reiterate in occasioni di varie crisi dei rapporti col mondo occidentale. In effetti si ritiene che una chiusura di Hormuz sarebbe un pesante autogol proprio per Teheran, che in quel modo bloccherebbe anche la gran parte delle proprie esportazioni: a partire da quelle di petrolio verso la Cina, la voce principale nella bilancia commerciale del Paese islamico, che per via delle sanzioni non può vendere il suo greggio all’Occidente (questa è anche una delle ragioni principali per cui l’attacco di Israele non ha causato scompensi gravi come per l’invasione dell’Ucraina: almeno nel breve periodo, il conflitto mediorientale non incide sull’offerta di petrolio per i Paesi occidentali). Inoltre, una scelta di quel genere potrebbe compromettere proprio i rapporti con la Cina e gli altri (pochi) alleati dell’Iran, che per giunta, paralizzando il traffico nello Stretto, dovrebbe pure rinunciare alle entrate garantite dal traffico commerciale non petrolifero che passa dai suoi porti meridionali.

EPA
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Petroliere nello Stretto di Hormuz

Rischi di escalation

E poi c’è un’altra ragione contro la chiusura, che si lega appunto agli scenari di guerra aperti dall’attacco scatenato da Donald Trump: proprio per la sua valenza strategica, sullo Stretto di Hormuz è altissima l’attenzione delle principali potenze mondiali, a partire dagli Stati Uniti che non casualmente lasciano la Quinta Flotta di stanza in Bahrein, pronta a intervenire a tutela della libera circolazione dei propri mercantili. Se n’è avuta una riprova col recente scandalo legato al bombardamento sugli Houthi spifferato sprovvedutamente su Signal: in quella circostanza, il consigliere per la sicurezza nazionale Mike Waltz aveva per errore incluso un giornalista in una chat in cui scambiava messaggi col segretario della Difesa Pete Hegseth, condividendo e anticipando i piani d’attacco contro il gruppo armato yemenita. Quell’azione militare nasceva appunto dalla necessità di bloccare le azioni di disturbo all’attività commerciale nello Stretto.

È chiaro quindi che, se intervenisse pesantemente su Hormuz, Teheran di fatto attirerebbe una risposta durissima dell’Occidente e l’ulteriore escalation del conflitto sarebbe quasi certa. Resta ora da capire se queste considerazioni indurranno gli ayatollah a lasciare ancora una volta inattuata quella minaccia, o se a questo punto Khamenei e i suoi ritengano che l’escalation sia già nei fatti, e ci si debba quindi preparare tutti al peggio.

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